Un token per domarli

L’educazione finanziaria in senso classico segna il passo. Mentre continuiamo a depositare i risparmi, a firmare polizze, a investire come ci è sempre stato insegnato, c’è un altro mondo che si sta aprendo, dove tutto può essere digitalmente rappresentato. La parola che sintetizza questo cambiamento è tokenizzazione e la Treccani ne dà una definizione asciutta ma eloquente: un indicatore univoco registrato su blockchain, con funzione di rappresentare un oggetto digitale o certificare la proprietà di un bene. Un token, insomma, ma in realtà è molto di più: è una porta d’accesso a una nuova economia.

È la frittura della finanza, e non è un’esagerazione. Perché, come in cucina, tutto sembra migliorare quando viene fritto, e tutto o quasi tutto, può essere fritto. Così accade per la tokenizzazione: ogni asset, se trasformato in token, guadagna sapore, appeal, accessibilità. E mercato.

A gennaio 2025, il valore complessivo degli asset tokenizzati ha superato i 50 miliardi di dollari, con stime che li proiettano a 500 miliardi entro la fine dell’anno. Solo nel settore immobiliare – per molti il settore “più concreto” che ci sia – la società di revisione Deloitte prevede 4 trilioni di dollari tokenizzati entro il 2035. Mentre Boston Consulting Group parla di oltre 3 trilioni già entro il 2030. Numeri che non si prestano più a interpretazioni: sono fatti.

Tutto può essere tokenizzato. E lo sarà. Immobili, fondi d’investimento, obbligazioni, opere d’arte, oro, carbon credit ESG, royalties musicali, brevetti. Un tempo erano riservati a pochi, oggi diventano accessibili, liquidi, democratici. Un’opportunità da 10 euro in su. E chi pensa che la cosa riguardi solo startup tecnologiche o sperimentatori digitali dovrà ricredersi: la piattaforma Redbelly Network ha tokenizzato 500 milioni di dollari in asset di private equity e 1,8 miliardi in affitti futuri. Stiamo parlando di capitali reali, già in movimento.

Proprio come nel balletto classico, anche la tokenizzazione si muove con disciplina e grazia. Passa dal private equity ai fondi monetari, dalle obbligazioni sovrane alla musica, senza perdere equilibrio né direzione. E mentre lo fa, costruisce un linguaggio nuovo: quello della finanza programmabile, interoperabile, globale.

Due mondi in collisione. Collisione che non è uno scontro. Nel cuore di questa accelerazione convivono due universi. Da una parte, le banche tradizionali. Dall’altra, le piattaforme decentralizzate del Web3 e della DeFi (Finanza decentralizzata). Le prime tokenizzano depositi bancari, obbligazioni native, fondi monetari regolati, persino titoli di Stato. L’obiettivo? Offrire strumenti efficienti, tracciabili e sicuri ai clienti istituzionali e corporate. Il prezzo? Un accesso spesso limitato per il pubblico retail e una certa rigidità strutturale.

Le piattaforme Web3 native, invece, hanno spalancato le porte a una nuova platea: con un semplice wallet e poche decine di euro si può investire in Real Estate tokenizzato, quote di Treasury Bill on-chain (come l’Usyc di Ondo), crediti ESG, NFT musicali o azioni frazionate. Una disintermediazione che spaventava – per motivi tecnici, culturali, normativi – ma che oggi sta trovando forma e struttura. Come scriveva Joseph Stiglitz, Premio Nobel per l’Economia, «le nuove strutture funzionano solo se generano fiducia e redistribuiscono opportunità». La tokenizzazione, nel suo modello decentralizzato, inizia a farlo davvero.

Stiamo assistendo alla nascita di una realtà ibrida: banca e DeFi, regolamentazione e interoperabilità. Un nuovo paradigma in cui gli asset vengono tokenizzati da attori regolamentati – banche, fondi, entità vigilate – con tutte le garanzie che questo comporta, e resi compatibili con wallet pubblici, protocolli decentralizzati, mercati permissionless. La liquidità si amplia, l’accessibilità si moltiplica. Un modello che funziona – per dirla ancora con Stiglitz. Un sistema che mette in comunicazione due mondi, senza snaturare nessuno dei due.

Il pericolo, in questo scenario, è l’immobilismo. Alcune istituzioni stanno scegliendo di rimanere fuori da questa evoluzione. Ma il presente non aspetta. Non è una rivoluzione, ma un’evoluzione sistemica e come tale premierà chi saprà adattarsi. Restare fermi oggi significa autoescludersi da una traiettoria che sarà dominante domani.

Il cambiamento non è più un’opzione, è il presente che avanza e raccontarlo ora è il solo modo per non subirlo dopo. La finanza sta aprendo i suoi bastioni, e la tokenizzazione è la chiave. Non è solo una tecnologia ma un nuovo modo di intendere la proprietà, di definire la liquidità, di distribuire il potere. Non è un’utopia digitale ma una traiettoria concreta e misurabile, già in corso, che non segna la fine di un mondo – come le colonne d’Ercole – ma l’inizio di una nuova geografia della finanza, dove asset, infrastrutture e modelli coesistono in modo più accessibile e interconnesso.

Per questo ha forse poco senso parlare di “nuova finanza”. Stiamo osservando un naturale processo di evoluzione che ridefinisce il linguaggio stesso della fiducia economica. Comprendere oggi questo passaggio significa restare al passo, essere parte attiva di una trasformazione sistemica che si muove non per rottura ma per integrazione. E che sta diventando la finanza di riferimento per il prossimo decennio.

A cura di Angelica Finatti