Scandalo Dieselgate lo tsunami dell’auto

Cosa resta dieci anni dopo il Dieselgate, il più grande scandalo che ha coinvolto la Volkswagen, l’intera industria automobilistica tedesca e, a seguire, il resto dei grandi costruttori? Come è cambiato lo scenario industriale e ambientale? E quali sono stati i veri danni per l’industria e i consumatori?

È ancora difficile un bilancio preciso e, soprattutto, sono molti i nodi da sciogliere, a cominciare dal coinvolgimento di altre case automobilistiche e produttori di tecnologie. Ma ciò che è possibile affermare con una ragionevole certezza è che dopo la tempesta “Dieselgate”, quasi nulla è più come prima. E quella che oggi chiamiamo “mobilità sostenibile”, ecologicamente corretta, sarebbe arrivata molto più in ritardo senza quello scandalo. Riavvolgiamo, allora, il nastro del tempo per capire cosa è accaduto in quei giorni. Era il 18 settembre del 2015, quando la US Environment Agency (EPA) mise sotto accusa la Volkswagen per aver violato, all’interno del territorio statunitense, le normative antinquinamento, utilizzando software in grado di ingannare i controlli delle emissioni di ossido di azoto (NOx), il famoso particolato, pericoloso per l’ambiente ma soprattutto per i polmoni delle persone. Dunque, i manager della casa tedesca furono ritenuti colpevoli di frode, ossia di aver truccato consapevolmente i test sulle emissioni.

Secondo l’accusa, infatti, ingegneri e manager erano profondamente coinvolti nello sviluppo e nell’uso di software di manipolazione in milioni di veicoli. Il motivo era evidente: i veicoli diesel della Volkswagen, infatti, non avrebbero mai superato i severi test USA. Così gli ingegneri, invece che cercare di abbassare le emissioni – operazione costosa e che avrebbe ridotto la potenza dei modelli – avevano optato per la manipolazione dei software, in modo che le emissioni di gas sul banco di prova sarebbero state molto più basse rispetto a quanto poi accadeva in condizioni reali.

In altre parole, i tecnici erano riusciti a realizzare il famoso defeat device, una centralina nascosta in grado di ridurre considerevolmente le emissioni quando l’auto arrivava sul banco di prova, per poi disattivarsi in strada.

La Volkswagen, da parte sua, di fronte a prove indiscutibili, ammise immediatamente di aver truccato i test, cercando così di attutire le conseguenze che invece furono enormi e portarono il gruppo verso una crisi senza precedenti, costata le dimissioni dell’allora gran capo Martin Winterkorn e di numerosi manager finiti agli arresti, e una spesa quantificata in oltre 33 miliardi di euro. Tanto per farsi un’idea del danno economico: in pochissimi giorni, dopo che la Volkswagen ammise di aver equipaggiato 11 milioni di veicoli in tutto il mondo con software fraudolento, il prezzo delle azioni scese del 20% e 11 milioni di veicoli furono “richiamati” in tutto il mondo (di cui 8,5 in Europa).

Da quel momento lo scandalo si allargò e travolse anche altri costruttori europei. Secondo alcuni documenti (datati dal 2006 al 2015 e forniti dall’ong tedesca DUH), sembrerebbe che quattro big tedeschi dell’auto – Audi, VW, Daimler e BMW – avessero espressamente chiesto a Bosch di creare un dispositivo illegale per truccare le emissioni. Documenti che confermerebbero, dunque, che il defeat device non fosse opera di pochi dipendenti, ma un’operazione studiata da tempo per vendere veicoli con emissioni più alte di quanto stabilito dai regolamenti. Insomma, da quel settembre 2015 comincia l’inarrestabile tsunami sull’industria automobilistica e, conseguentemente, un processo senza precedenti che mette sott’accusa l’automobile. In particolare, il motore diesel che diventa il grande nemico da annientare e cancellare, il male assoluto del sistema. Le vendite di auto a gasolio cominciano a crollare in tutti i principali mercati europei e, nello stesso tempo, si fa strada la necessità di un grande cambiamento. Una rivoluzione ambientale ed energetica epocale.

Cambiano i test di emissioni, che si estendono anche alle prove reali su strada e non più solo in laboratorio. Si stringono le normative di omologazione riguardanti le emissioni. Soprattutto nasce una nuova idea di mobilità a zero emissioni. Succede tutto molto velocemente, ma si capisce con altrettanta rapidità che il futuro dell’auto non può essere che elettrico e che occorre accelerare questo passaggio.

Di questo si fa immediatamente carico proprio la politica, che probabilmente deve recuperare terreno e consensi per la sua incapacità di prevenire quanto accaduto. E recuperare significa sbarazzarsi in fretta dei motori termici e aprire i cordoni della borsa per favorire l’auto elettrica.

Comincia così la transizione energetica, sull’onda di uno scandalo che tutti vorrebbero dimenticare in fretta. Uno scandalo che, se un merito l’ha avuto, è stato proprio quello di dare il via a una nuova era della mobilità.

Come andrà a finire lo vedremo presto.

A cura Valerio Berruti