Resilienza. Non rivoluzione

La transizione energetica si è imposta come imperativo del nostro tempo, ma troppo spesso viene raccontata come un processo lineare, privo di attrito. Eppure, dietro le traiettorie tracciate nei piani strategici si celano fragilità strutturali, discontinuità tecnologiche, squilibri sociali. Il rischio più grande non è il ritardo, ma l’illusione. Pensare che basti sostituire una fonte con un’altra, un motore con un altro, una parola con un’altra - green, smart, sostenibile - per cambiare davvero il modello.

L’Italia, come gran parte dell’Europa, si trova oggi sospesa tra ambizioni climatiche e vincoli infrastrutturali, tra obiettivi imposti dall’alto e una realtà produttiva che fatica a tenere il passo. È in questo spazio di frizione che si gioca la partita del realismo industriale: la capacità, cioè, di concepire una transizione che sia insieme giusta, tecnicamente percorribile e socialmente inclusiva. Una transizione che non rinuncia all’innovazione, ma che rifiuta il pensiero magico.

Ne abbiamo parlato con Bashar Alawadhi, Amministratore Delegato di Q8 Italia.

Tutti parlano di elettrificazione. Ma dal vostro osservatorio, il sistema Italia è pronto?

«Sulla carta sembriamo pronti, ma la realtà è ben più articolata. L’infrastruttura elettrica italiana presenta ancora limiti strutturali significativi. La capacità produttiva è distribuita in modo disomogeneo e molte reti locali restano fragili. Si parla molto di mobilità elettrica, ma spesso si sorvola su aspetti fondamentali come la capillarità delle colonnine di ricarica o la sostenibilità complessiva del sistema. Il rischio è evidente: puntare su una corsa veloce con un impianto che non è ancora pronto nemmeno per un’andatura costante. È per questo che la transizione energetica deve essere pensata come un processo graduale, integrato, tecnologicamente neutro. L’elettrico avrà un ruolo chiave, ma non può essere l’unica risposta. Trascurare soluzioni complementari e intermedie, come i biocarburanti avanzati, l’idrogeno low carbon o il miglioramento delle tecnologie nei motori a combustione, significa rinunciare a una transizione realistica, inclusiva, sostenibile. La vera sfida non è scegliere tra presente e futuro, ma costruire un ponte solido tra i due. E questo richiede pragmatismo, investimenti mirati e un approccio non ideologico alla sostenibilità.»

A proposito di soluzioni intermedie: i biocarburanti sono davvero una risposta credibile, o solo un’altra toppa sul sistema attuale?

«I biocarburanti, in particolare quelli di seconda generazione, non sono una “toppa” temporanea. Sono una risposta concreta e strategica. Una tecnologia di transizione, certo, ma nel senso più nobile del termine.Permettono una decarbonizzazione immediata, sfruttando le infrastrutture esistenti e valorizzando una filiera industriale già consolidata. Pensare che la transizione energetica si giochi solo sull’elettrico è un errore di prospettiva. Il futuro dell’energia sarà inevitabilmente plurale. Le tecnologie devono coesistere, adattarsi ai contesti geografici, industriali e sociali, ed essere scelte in funzione dell’impatto reale che possono generare. L’Italia, da questo punto di vista, ha una posizione di vantaggio: competenze, impianti, rete logistica e un’industria pronta a innovare.

Serve però una visione politica più consapevole, capace di riconoscere nei biocarburanti non una soluzione d’attesa, ma un elemento centrale per una transizione credibile e inclusiva.» Una delle parole chiave in un suo recente discorso è stata “resilienza”. Ma oggi, in concreto, cosa vuol dire rendere un’infrastruttura energetica davvero resiliente?

«Parlare oggi di resilienza significa ripensare i modelli di sviluppo che abbiamo seguito per decenni. Per troppo tempo abbiamo privilegiato la massima efficienza, costruendo filiere globali snelle, ma fragili. Oggi la vera competitività passa dalla robustezza. Un’infrastruttura è resiliente se resiste agli shock, si adatta, continua a funzionare anche in scenari imprevedibili. Per un gruppo come il nostro, questo significa intervenire su più livelli: diversificare le fonti di approvvigionamento, rafforzare la capacità di stoccaggio, modernizzare la logistica, rendere gli impianti più flessibili. Serve una nuova generazione di raffinerie in grado di trattare diverse tipologie di materie prime, reti più intelligenti, sistemi che garantiscano non solo efficienza, ma anche continuità operativa. Il cambiamento climatico non è una previsione, è già una variabile che condiziona il presente. Le nostre infrastrutture devono essere progettate partendo da questa consapevolezza. Resilienza, in questo senso, non è un concetto astratto. È lo standard minimo con cui va ripensata l’industria energetica.»

L’industria italiana può davvero affrontare questa transizione senza perdere occupazione?

«Sì, ma a una condizione: che il lavoro venga messo al centro delle scelte strategiche. Ogni transizione porta con sé tensioni fisiologiche, ma proprio per questo non può essere lasciata all’improvvisazione o subita passivamente. Va governata, con politiche industriali che accompagnino persone e territori. La vera sfida non è solo installare impianti o adottare nuove tecnologie, ma formare chi dovrà gestirle.

In Q8 stiamo investendo in percorsi strutturati di aggiornamento e riqualificazione professionale, convinti che la transizione possa generare occupazione, non ridurla, se affrontata con visione. Una transizione equa deve riguardare anche la qualità del lavoro: salari, diritti, dignità, radicamento locale. Non possiamo costruire il futuro chiedendo sacrifici unilaterali o promettendo benefici destinati a pochi. La transizione sarà sostenibile solo se sarà anche inclusiva.»

Lei ha parlato spesso di Industria 5.0. Cosa cambia rispetto al paradigma precedente, e cosa significa per voi applicarlo davvero? «Se l’Industria 4.0 ha rappresentato il trionfo dell’automazione e della connessione digitale, l’Industria 5.0 ne è l’evoluzione più consapevole. Reinserisce la centralità dell’uomo nel sistema produttivo. Non si parla più solo di efficienza, ma di armonia tra tecnologia e intelligenza umana. Un equilibrio che rende l’industria più adattiva, più sostenibile, più responsabile.

Per Q8 significa adottare tecnologie avanzate – dall’intelligenza artificiale all’analisi predittiva – non per sostituire le persone, ma per potenziarne le competenze, affiancarne le decisioni, valorizzarne il giudizio. Nei nostri impianti stiamo ripensando il ruolo dell’operatore: da esecutore a figura chiave nell’interpretazione della complessità, capace di dialogare con sistemi intelligenti e prendere decisioni in tempo reale. Industria 5.0 è prima di tutto un cambio culturale. Si passa dalla logica del controllo a quella della cooperazione, dalla rigidità alla flessibilità. In un mondo segnato da shock ricorrenti e instabilità, l’industria del futuro dovrà essere un organismo vivo. Tecnologicamente avanzato, ma profondamente umano.»

La narrazione sulla sostenibilità oggi è ovunque. Ma è all’altezza della complessità che descrive?

«In molti casi, no. Il linguaggio della sostenibilità si è fatto rassicurante, a volte troppo. Parole come green, net zero o smart sono diventate formule ricorrenti, ma spesso svuotate di significato. La vera sfida, però, non è solo comunicare meglio, ma accettare fino in fondo la complessità. Sostenibilità non vuol dire inseguireobiettivi ambientali in modo ideologico o unilaterale. Il rischio di derive ambientaliste, prive di una visione sistemica, è reale. Una transizione efficace richiede un bilanciamento maturo tra i tre pilastri ESG, con un'attenzione particolare a quello sociale.

Perché una transizione che non tutela l’occupazione, che non investe nei territori, nella formazione, nella qualità del lavoro, è una transizione zoppa. In Q8 siamo consapevoli che il nostro ruolo non si misura solo in tonnellate di CO₂ risparmiate, ma anche nel valore restituito alle comunità in cui operiamo. La sostenibilità autentica non è solo questione di tecnologie, ma di scelte. Di responsabilità. E, soprattutto, di coerenza. La fiducia si costruisce con trasparenza. Non con una narrazione perfetta, ma con un confronto aperto e onesto.La sostenibilità è un impegno quotidiano, fatto di decisioni complesse, di tensioni da gestire, di obiettivi che si intrecciano e, a volte, si contraddicono.»