Speranza e timore. Due parole che potrebbero sintetizzare il senso di questi tempi sconvolti dalla velocità eccessiva di un’innovazione che non è più transitoria. Il cambiamento è diventato la costante, la rapidità è una variabile su cui vanno ritarati tutti i parametri vitali, quotidiani, di crescita e sviluppo, di relazione. Le rivoluzioni tecnologiche e industriali del passato erano caratterizzate da un apice a cui seguivano anni di assestamento e adeguamento al nuovo. Oggi lo scenario è improntato a un costante mutamento e l’innovazione non è più una semplice promessa del futuro, ma un processo costante di trasformazione che plasma quotidianamente abitudini, relazioni, emozioni. Non riguarda solo i progressi nei laboratori o le startup della Silicon Valley, ma tocca aspetti profondi dell’esperienza quotidiana: dalla salute alla comunicazione, dalla mobilità all’educazione, fino all’amore e all’identità personale. Il dibattito attorno all’intelligenza artificiale e alle tecnologie emergenti, che viene spesso ridotto a mere questioni tecniche o economiche, nasconde interrogativi esistenziali. Cosa significa “restare umani” in un mondo in cui le macchine imparano, parlano, decidono, simulano affetti? Volendoci spingere un po’ più in là, potremmo anche provare a capire se stiamo progettando un futuro che migliora la vita, o se invece stiamo riscrivendo il significato stesso del vivere.
E potremmo aver bisogno di nuove regole, come aveva anche già intuito Asimov. «Un robot non può ferire un essere umano o, per inerzia, permettere che un essere umano venga danneggiato». La Prima legge della robotica di Isaac Asimov risale al 1942, un tempo in cui l’idea
del progresso assumeva la forma di un umanoide robotico, e già si sentiva l’esigenza di dare un confine etico all’incognita dell’innovazione. L’evoluzione ci ha portato verso scenari differenti, oggi è l’intelligenza artificiale generativa – nelle sue forme più diffuse come gli assistenti vocali, gli algoritmi predittivi o i chatbot conversazionali che restituisce un senso alle intuizioni di Asimov. Il fascino di una compagnia robotica lo ritroviamo fin dal 1800 nei racconti di E.T.A. Hoffmann, che con il suo “Uomo della sabbia” racconta l’infatuazione umana nei confronti dell’algida automa Coppelia. La differenza sostanziale è che noi oggi siamo di fronte alla realizzazione di un sogno antico che assume la forma astratta di una voce sintetica. Un nuovo codice culturale, un modo inedito di relazionarci con il mondo, con gli altri e con noi stessi.
Il rischio non è un futuro dominato da robot senzienti, ma un presente in cui deleghiamo sempre più funzioni cognitive ed emotive alle macchine, adattandoci al loro linguaggio invece di imporre una nostra visione critica. Ecco che uno degli aspetti più affascinanti e inquietanti di questa trasformazione in atto riguarda anche il tema dell’innovazione nella sfera affettiva. L’idea che una macchina possa comprendere le emozioni, o addirittura suscitarle, era stata anticipata da film come “Her” o “Ex Machina”, e ci aveva fatto sorridere l’ipotesi una voce sintetica che diventava un interlocutore emotivo. Eppure già oggi, a distanza di pochi anni, abbiamo chatbot evoluti capaci di sostenere conversazioni complesse, di consolare e “leggere” il tono della voce o delle parole scritte. Ma noi siamo in grado di capire la differenza che intercorre fra affetto umano e sua simulazione? Quasi un filtro magico tecnologico, questo che propone rapporti affettivi sintetici ma funzionali, e la questione non è solo teorica. Nelle app di supporto psicologico, nei videogiochi relazionali, nelle interfacce empatiche delle aziende, la linea tra emozione autentica e reazione artificiale si fa sottile. Ed è qui che entra in gioco l’etica: non nel vietare la tecnologia, ma nel chiederci come usarla senza perderci. Perché è sempre più evidente che non tutto ciò che è tecnicamente possibile deve necessariamente essere anche desiderabile. In assenza di una visione comune politica ed etica, il rischio è che la corsa all’innovazione si trasformi in una forza autotelica, che produce cambiamento per il cambiamento senza interrogarsi sul suo impatto umano. Oggi più che mai, serve una cultura dell’innovazione che metta al centro l’essere umano, nella sua interezza, razionale e creativa e non si limiti a “potenziare” l’intelligenza, ma rafforzi anche le competenze emotive, etiche, relazionali. Che investa in tecnologie, ma anche in educazione, inclusione e cura. Il futuro non dipenderà dalle capacità delle macchine, ma dalle scelte degli uomini. L’innovazione non dovrà sostituire l’umano, ma aiutarlo a esprimersi meglio. Se riusciremo a mantenere questo equilibrio, la tecnologia potrà davvero diventare l’alleata della nostra umanità – e non la sua replica.