Con questo spettacolo voglio far ragionare », dice Enrico Romita, regista di “Ternitti” dal romanzo di Mario Desiati. In scena una cortina di lastre ondulate di eternit, una schiera di sedie lasciate vuote da chi non c’è più e un’attrice, Giusy Frallonardo, che riassume in sé la storia delle donne salentine uccise dall’amianto. «Il veleno era così forte che bastava occuparsi del bucato, mettere in lavatrice le tute dei mariti, operai nella fabbrica di Niederurnen in Svizzera, per provocare il cancro anche nelle casalinghe, e anche anni dopo il ritorno in Italia», racconta il regista. La storia di “Ternitti” è triste ma, paradossalmente, è a lieto fine: è il simbolo di una battaglia vinta da chi lotta per la salute e contro l’inquinamento, il ricordo di un materiale da costruzione che era onnipresente e ormai è finito nel dimenticatoio perché cancerogeno: il divieto di utilizzarlo in Italia è arrivato nel 1992, anche se le vittime tra chi è stato esposto all’amianto continuano. Soprattutto in Piemonte e Puglia, due delle regioni in cui lo spettacolo sarà in tournée nei prossimi mesi. Far ragionare invece di spaventare. Raccontare storie che diano speranza per combattere il pessimismo. È questa la nouvelle vague della cultura ambientalista, il filo rosso che lega spettacoli, film, dischi e libri di autori che vorrebbero spingere ad agire contro l’inquinamento. Pigiare sul tasto dell’allarme porta all’ecoansia: a cosa serve dare il nome di un mostro mitologico a ogni ondata di caldo, trovare nuovi termini scientifici per definire ogni sfumatura di un acquazzone, o chiamare alle armi contro disastri che avverranno tra cent’anni o colpiranno una delle 10mila isole disabitate dell’Indonesia?
Per un po’ è sembrata la strategia vincente: se conoscere i rischi dell’inquinamento non bastava a spingere all’ecologia né i governi né le persone, ci sarebbe riuscita la paura. Che però finisce per generare una catena di pessimismo e rassegnazione. Molto meglio puntare sulla bellezza, la speranza, la vitalità: come la danza delle falene di una foresta indiana alle pendici dell’Himalaya, protagoniste di “Nocturnes”, documentario premiato al Sundance Festival e presentato pochi giorni fa a Torino durante la 28esima edizione di CinemAmbiente. Un’ampia selezione della rassegna di cinema ed ecologia diretta da Lia Furxhi e organizzata dal Museo Nazionale del Cinema è disponibile in streaming gratuito fino al 21 giugno sul sito del festival. Il volo, i disegni, i colori degli insetti notturni si stagliano su schermi bianchi illuminati da luci azzurre: e mentre due giovani studiosi, Mansi e Bicki, cercano di decifrare abitudini di vita e interazioni con l’ecosistema della foresta, nel film di Anirban Dutta e Anupama Srinivasan è l’intera visione antropocentrica della natura a essere messa in questione. È l’umanità stessa a entrare in crisi nelle immagini di un altro film in rassegna, “Abito di confini”, in cui Opher Thomson segue la traversata di un migrante dall’est all’ovest del Nord Italia, immerso in una natura che sembra essergli più amica delle persone. Il contrario delle inquadrature minimaliste di “Abito di confine”, scelto dal Gruppo Abele per il premio Casacomune come «film che meglio sia stato in grado di riflettere temi legati alla spiritualità intesa come dimensione strettamente legata alla natura di cui facciamo parte», è la spettacolarità delle immagini di “Ocean”, documentario-evento di David Attenborough (in Italia il titolo è “I Segreti dell’Oceano con David Attenborough” ed è in streaming su Disney+). Il grande divulgatore e ambientalista, autore di film fondamentali per la conoscenza delle bellezze della natura e delle distruzioni provocate dall’uomo (da “The Blue Planet” a “A Life on Our Planet”) si è regalato per il 99esimo compleanno un film che è insieme un affresco dello splendore della vita sottomarina e una denuncia vibrante delle disastrose conseguenze delle attività umane, soprattutto della pesca a strascico. Anche in questo caso, però, l’accento finale è sui miglioramenti che può portare il futuro. Accanto alle immagini di fondali distrutti e di rocce desertificate, spicca la rapida ripresa di zone, dalla Scozia alle Hawaii, in cui la pesca a strascico è stata vietata. «Il mare può guarire, se gli diamo una possibilità”, ha detto Attenborough». «Ho visto un cambiamento globale una volta – con la fine della caccia alle balene – e so che può succedere di nuovo».
Lo stesso spirito combattivo anima due festival italiani dedicati al “Pianeta blu”. In aprile a Trieste MareDireFare – Festival dell’Oceano, ideato dal Wwf intorno all’Area marina protetta di Miramare e all’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale, offre un programma di conferenze e presentazioni di libri con un focus particolare sui fumetti. L’Ocean Film Festival World Tour Italia, invece, in autunno porta nei cinema di decine di città una selezione dei film legati a mari e oceani presentati dell'Ocean Film Festival Australia, una delle rassegne più importanti sull’argomento. Un mosaico di opere di registi e documentaristi di tutto il mondo, unite da un messaggio unico: «Ispirare gli spettatori a esplorare, rispettare, apprezzare e proteggere i nostri oceani». E ogni anno, dopo la presentazione in giro per l’Australia, da Darwin a Melbourne, da Brisbane a Perth, i film partono per una tournée che tocca, oltre all’Italia, Spagna, Nuova Zelanda, Messico, Brasile, Stati Uniti e Gran Bretagna.
Ma non c’è bisogno di andare in Australia per trovare film che parlano di mare. È uscito un mese fa “Breath”, film italiano malgrado il titolo, che rimanda alla morale del film: un respiro su due noi lo dobbiamo al mare. Documentario d’esordio di Ilaria Congiu, prodotto con il patrocinio di Legambiente, Extinction Rebellion Italia e Mare Vivo, “Breath” parte dalle coste del Senegal per arrivare al Mediterraneo ripercorrendo le storie del mare e di chi vive sulle coste: un viaggio che mescola bellezze struggenti e immagini devastanti degli effetti dell’inquinamento, dell’aumento della temperatura, dello sfruttamento eccessivo delle risorse. Per la regista, nata a Dakar da un italiano che esportava pesce, è anche un film autobiografico. «In Senegal passavo gran parte del mio tempo in acqua», ha raccontato. «Ho ricordi di un mare che non vediamo più. Da piccola quando facevo surf vedevo sotto di me squali, innocui, che ora è sempre più difficile incontrare». Nel film i suoi ricordi sono flash tra testimonianze di vita di pescatori italiani e senegalesi, di scienziati come Silvio Greco, di atleti come l’apneista Alessia Zecchini, di attivisti come la tunisina Rym Benzina Bourguiba. Se i cinema si riempiono di film ambientalisti, le librerie conoscono da tempo il fenomeno. Ma dopo aver puntato tutto sulla saggistica, ora si privilegia il romanzo, per unire informazione ed emozione.
Arriva alla quinta edizione quest’anno il premio “Le Pagine della Terra”, il primo premio letterario italiano dedicato ai libri green, fondato da Claudio Cutuli, “maestro tintore”, e dalla psicoterapeuta Vera Slepoj: tra gli autori selezionati negli anni scorsi, Stefano Mancuso, Monica Pais e Paolo Malaguti. A ottobre a Roma una giuria guidata da Ermete Realacci ed Enrico Vanzina sceglierà il romanzo che meglio promuovere una cultura del rispetto per l’ambiente e della consapevolezza nei consumi. Il nome stesso del premio è un omaggio alla tradizione artigianale dei Cutuli, famiglia di tintori e tessitori calabresi che da sei generazioni è impegnata in una produzione etica basata su pigmenti naturali. Arriva in versione cd per Ala Bianca, dopo una lunga tournée, "Nomadic”, il “Canto per la biodiversità" di Telmo Pievani e Gianni Maroccolo (ex Litfiba, CCCP, CSI): è un lavoro che unisce canzoni e saggistica, ecologia e filosofia per raccontare il legame indissolubile tra natura e migrazioni, tra apprezzamento della biodiversità e rispetto della dignità umana. La nuova parola d’ordine è “bando alla paura” ma, sia chiaro, non è certo perché non si sia capaci di spaventare, volendo. Il Romita di “Ternitti” è lo stesso regista che da quattordici anni dirige nell’impressionante sala d’ingresso delle Grotte di Castellana “Hell in the cave”, spettacolo di teatrodanza acrobatico che estrae l’essenza horror dei nove cerchi dell’Inferno dantesco. Tra anime dannate avvolte in tute color carne, musiche e luci avvolgenti, effetti multimediali e colpi di scena, la paura non manca. Per fortuna il soffitto della grotta è bucato, e quando si spengono le luci dello spettacolo, lì in alto si vedono splendere le stelle.
A cura di Angiola Codacci-Pisanelli