La soglia dell’evidenza

C'è un gas che non si vede, ma pesa più degli altri. È il metano. Incolore, inodore, sfuggente. Secondo l’Intergovernmental Panel on Climate Change, ha un potenziale climalterante fino a 86 volte superiore a quello della CO₂ su un orizzonte di vent’anni. Contenerne la dispersione, tracciarne le perdite, ridurne la presenza lungo la filiera energetica è una delle sfide più decisive della transizione. Ma anche una delle meno raccontate. Il metano, semplicemente, non fa rumore. Non attraversa i titoli dei giornali, non agita l’opinione pubblica. Per renderlo visibile servono satelliti, intelligenza artificiale, algoritmi predittivi. Ma soprattutto servono dati. E la volontà di condividerli. Al tempo stesso, la transizione si gioca nei territori, spesso lontani dai riflettori. Villaggi senza accesso all’energia, regioni periferiche dove l’impronta industriale resta scollegata dallo sviluppo sociale, aree a rischio in cui il lavoro si confonde con la fragilità. Lì, la sostenibilità assume un significato diverso. Non più solo obiettivo ambientale, ma promessa di equità. E prova di coerenza. Tra queste due polarità, l’innovazione tecnica e la responsabilità locale, si sta giocando oggi una partita meno appariscente, ma essenziale. Quella che mette in relazione la qualità scientifica delle strategie climatiche con l’autenticità del loro impatto umano. In Eni, la risposta è arrivata con un piano preciso. Emissioni di metano prossime allo zero entro il 2030, attraverso il monitoraggio e la misurazione di tutti gli impianti, inclusi quelli nelle zone più remote.

Senza ripetere ciò che già è noto sul potenziale climalterante di questo gas, qui il focus è tutto sulla misurazione. Le emissioni vengono identificate e monitorate con tecnologie satellitari, droni e sensori ad alta precisione. La rilevazione non è più affidata a stime, ma fondata su misure dirette o calcoli ingegneristici. Ogni dato diventa tracciabile, ogni scarto misurabile. È anche grazie a questa infrastruttura che l’azienda ha ottenuto il riconoscimento “Gold Standard Reporting” dell’Oil and Gas Methane Partnership 2.0 (OGMP 2.0) da parte dell’UNEP per la qualità del suo reporting volontario sulle emissioni di metano. A distinguere l’approccio, non è solo la tecnologia, ma la sistematicità delle attività. La riduzione delle emissioni non è un gesto simbolico, ma un’operazione industriale. E proprio perché industriale, dev’essere scalabile, ripetibile e documentabile. In questo senso, il metano diventa la cartina di tornasole della transizione reale, quella che si misura, si corregge, si espone a verifica. Quella che non dipende dalle parole, ma dai margini d’errore. Ma l’attenzione per il dato, per quanto necessaria, non basta a legittimare una transizione. Perché la sostenibilità, per essere credibile, non può limitarsi al reporting dei principali indicatori di sostenibilità. Deve diventare equità redistributiva. Una promessa da mantenere non solo in termini di riduzione delle emissioni, ma di aumento delle opportunità là dove l’energia viene prodotta. Non solo compensare. Restituire. Nei contesti dove l’accesso all’energia resta frammentario – villaggi rurali, regioni marginali, economie vulnerabili – è proprio la presenza industriale a farsi leva trasformativa. Non se imposta. Solo se condivisa.

Da questa consapevolezza nasce il modello operativo che Eni ha sviluppato nel tempo per valutare, e non semplicemente dichiarare, il proprio impatto sociale nei territori attraverso le operazioni industriali. Si chiama ELCE, acronimo di Evaluation of Local Content and Externalities. Fa parte di un framework interno che struttura ogni intervento sul territorio in cinque fasi: analisi del contesto socioeconomico, coinvolgimento degli stakeholder locali, mappatura degli impatti su ambiente e diritti umani, definizione congiunta dei progetti di sviluppo, e infine valutazione del valore generato. Una metodologia che si traduce in programmi concreti: dalle attività per il Clean Cooking in Angola alle iniziative e programmi di formazione e accelerazione di Joule in Rwanda, passando per i piani di accesso all’energia in Costa d’Avorio o i laboratori di formazione in Italia. La logica è sempre la stessa: costruire relazioni. E non solo impianti. «Just Transition – spiega Francesca Ciardiello, Head of Sustainability di Eni – significa decarbonizzare l’energia di sempre, investendo in efficienza energetica e in soluzioni per la riduzione progressiva delle emissioni di CO₂, la cattura e lo stoccaggio dell’anidride carbonica. Ma significa anche investire nelle energie di domani, con i 4 GW di capacità da rinnovabili già installati da Plenitude e l’obiettivo di raggiungere 15 GW entro il 2030. Significa aumentare la capacità di bioraffinazione, offrire carburanti più sostenibili ai nostri clienti, tutelare la sicurezza delle persone, rafforzare le competenze, e contribuire allo sviluppo locale nei territori dove siamo presenti. Solo così possiamo essere un soggetto che genera valore condiviso nel lungo termine». Una visione che tiene insieme ingegneria e impatto, infrastruttura e legame sociale. E che si traduce in un modello industriale che punta alla neutralità carbonica al 2050 non come esercizio di scenario, ma come esecuzione progressiva di un piano: fatto di target, tappe intermedie, responsabilità condivise. «Abbiamo un piano concreto di trasformazione e decarbonizzazione – prosegue Ciardiello – che mira a conciliare la sostenibilità economica, ambientale e sociale, a partire dall’obiettivo di neutralità carbonica al 2050. Pensiamo che la transizione energetica si possa attuare se genera delle basi per opportunità di business integrati, innovativi e profittevoli, come stiamo dimostrando grazie all’esecuzione del nostro modello satellitare». Perché in fondo, la vera transizione non è quella che dichiara. È quella che si misura, si espone, si lascia verificare. Quella che restituisce valore ai luoghi, e non solo margine ai bilanci. Quella che riduce ciò che non si vede, come il metano, e dà voce a chi non viene ascoltato, come le comunità periferiche. Tutto il resto è rumore di fondo.