

Maiali con ernie enormi che sfregano a terra, zampe ulcerate e orecchie strappate. Intorno, resti di suinetti morti, probabilmente cannibalizzati, e scrofe stremate in gabbie d’acciaio. Gli animali malati non vengono isolati né curati. Le immagini degli allevamenti intensivi, documentate regolarmente dall’associazione Essere Animali, sono uno squarcio su un sistema produttivo che, oltre a infliggere sofferenza, sta contribuendo in maniera decisiva alla crisi ambientale che stiamo vivendo.
Non è solo questione di etica animale. È anche, e sempre di più, una questione ambientale, climatica, sanitaria. Secondo il più recente rapporto del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc), il sistema alimentare globale è responsabile di circa il 37% delle emissioni di gas serra totali. Gli allevamenti da soli rappresentano fino al 14,5%: una quota paragonabile a quella dell’intero settore dei trasporti globali. Il metano prodotto dalla digestione dei ruminanti, insieme al protossido di azoto derivante dalle deiezioni e dai fertilizzanti, sono tra i gas più climalteranti oggi in circolazione.
L'Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra) ha rilevato che, in Italia, il settore agricolo produce circa il 7,5% delle emissioni totali, e di queste il 74% è attribuibile proprio agli allevamenti, in particolare alla fermentazione enterica (44%) e alla gestione delle deiezioni (27%). L’epicentro dell’impatto ambientale della zootecnia è la Pianura Padana. Qui si concentra il 90% degli allevamenti intensivi italiani di maiali e polli. Le province di Mantova, Brescia, Cremona, Verona e Forlì-Cesena sono le più densamente popolate da queste strutture, veri e propri impianti industriali in cui si allevano decine o centinaia di migliaia di animali alla volta.
La qualità dell’aria peggiora nei pressi di questi siti. I liquami vengono spesso sparsi nei campi come fertilizzante, liberando nell’atmosfera ammoniaca e azoto, che si combinano con il particolato generando PM2.5, una delle polveri sottili più nocive per la salute umana. Secondo Legambiente, nonostante un miglioramento parziale della qualità dell’aria nel 2023, le città vicine agli allevamenti intensivi, come Cremona e Mantova, continuano a registrare livelli elevati di inquinamento. Questo avviene anche a causa della pratica dello spandimento dei reflui, vietata d’inverno, ma consentita il resto dell’anno. La qualità dell’aria peggiora proprio nei mesi "liberi".
Queste attività sono oggetto della direttiva europea sulle emissioni industriali approvata ad aprile 2024. Il Consiglio dell’Ue ha inoltre introdotto una revisione che include anche gli allevamenti su larga scala di pollame e suini tra le pratiche soggette a limiti di emissione, monitoraggio ambientale e sanzioni. Le aziende che non si adegueranno rischiano multe fino al 3% del fatturato, oltre all’obbligo di risarcire danni alla salute dei cittadini eventualmente causati. L’Italia è stato l’unico Paese a votare contro. A pesare è probabilmente il ruolo centrale che la zootecnia intensiva riveste nella filiera alimentare nazionale.
Il problema, però, è globale. Il consumo di carne è la causa primaria della deforestazione, della perdita di biodiversità e della scarsità d’acqua in Sud America. A incidere è soprattutto la coltivazione di soia che per l’80% è destinata agli allevamenti. Secondo Greenpeace, il settore agroalimentare è responsabile di circa un quarto delle emissioni globali di gas serra, delle quali oltre il 60% provengono dalla produzione di carne e derivati.
Ogni bistecca o petto di pollo industriale comporta un uso spropositato di suolo e risorse. Il movimento internazionale Save Soil calcola che oltre il 60% dei suoli agricoli europei è impoverito a causa dell’agricoltura intensiva. Senza strutture microbiche sane e organiche, il suolo non può più assorbire né trattenere il carbonio, contribuendo così alla crisi climatica. I terreni che perdono la capacità di trattenere acqua favoriscono poi le alluvioni e una minore resilienza durante i periodi di siccità.
La densità degli allevamenti intensivi è anche un rischio sanitario. In ambienti chiusi e sovraffollati, i virus trovano terreno fertile per proliferare e mutare. Tre quarti delle malattie emergenti negli esseri umani derivano dagli animali. L’influenza aviaria e la peste suina sono solo gli esempi più recenti. Nel solo 2024, oltre 100 mila animali sono stati abbattuti in Italia per fermare il contagio di aviaria e peste suina africana. E in molti allevamenti, come ha documentato ancora Essere Animali, lo smaltimento avviene senza trasparenza, a volte attraverso metodi cruenti come l’uso della schiuma soffocante.
L’Europa investe miliardi nella Politica Agricola Comune, ma questi fondi vanno in gran parte a sostenere la competitività degli allevamenti intensivi. In Italia, l’80% dei sussidi agricoli finisce al 20% delle aziende, spesso le più grandi e inquinanti. Un sistema premia chi produce di più, non chi produce meglio. Le alternative esistono: piccoli allevamenti biologici, produzioni integrate, modelli agroecologici. Ma, più di tutto, è necessaria una riduzione del consumo complessivo di carne.
Se il sistema zootecnico intensivo si è affermato per motivi economici, oggi a essere in discussione è il suo costo reale in termini di salute pubblica, cambiamento climatico, inquinamento, benessere animale e perdita di suolo fertile. Le sofferenze degli animali e del pianeta non convengono più a nessuno.
A cura di Gennaro Tortorelli