L’Ia a L’Espresso il confine dell’etica

Dopo aver ideato il progetto, selezionato attentamente i materiali, ridotto a misura i pezzi, verificati gli incastri, levigate le superfici e assemblato il tutto, nessun artigiano definirebbe il proprio prodotto industriale. Non se ha usato gli occhiali per verificare venature e imperfezioni della materia, non se ha fatto ricorso a utensili elettrici per tagliarla, modellarla, piegarla, se necessario, né se ha impiegato la chimica per la colla o la fisica per le saldature. Perché ciò che ha realizzato è ciò che aveva nella testa e quel che ha prodotto ha richiesto il dispiegarsi di un’abilità, di un’attitudine, di una maestria, se volete. E di una infinità di dubbi, superiori alle certezze.

Così, di fronte al prodigioso dischiudersi di universi ora fantasmagorici, ora terrifici, nel nostro eterno oscillare tra il fideistico abbandono alle potenzialità tecnologiche e il ritrarcene impauriti, l’uso dell’intelligenza artificiale nel giornalismo resta una questione eminentemente etica prima ancora che produttiva.

Perché l’Ia è utile, sicuramente. Velocizza i processi, questo è indubbio. Ma il tema centrale è cosa sacrifica sull’altare del vantaggio.

E fino a che punto si può pagare il prezzo per ricavarne un profitto, senza compromettere l’artigianalità del nostro lavoro, la genuinità, la credibilità sulla quale si costruisce la reputazione di una testata e di chi ci lavora, rinsaldata nel patto di lealtà con i lettori.

È giusto che a porsi delle regole e dei limiti, come già accade su molte questioni che trattiamo, siano in primo luogo i giornalisti. Nelle redazioni dove ancora c’è spazio per il dibattito, il dubbio e il confronto. Tra generazioni e nel solco di una tradizione che è orgoglio e responsabilità.

Perché al centro del nostro lavoro deve esserci sempre ciò che siamo, ciò che vogliamo fare e il modo in cui lo facciamo.

Diciamocelo subito: L’Espresso non usa e non userà l’intelligenza artificiale per la redazione di testi. Non lascerà a una macchina il compito di elaborare delle idee e la forma in cui esprimerle. E non affiderà mai a un algoritmo il compito di manipolare o distorcere la realtà documentata da una fotografia scattata sul campo.

Può farvi ricorso per incrociare dati, mappare connessioni, rintracciare delle occorrenze. Può utilizzarla per costringerla a digerire montagne di documenti per restituire il dato che cerchiamo, il particolare rilevante che abbiamo inseguito con gli occhi tra milioni di righe, obbligandoci comunque e sempre a un riscontro incrociato. A domande su domande e a un’infinità di sospetti.

È già accaduto per analizzare i 12 milioni di documenti sulle società offshore dei Pandora Papers pubblicati dalle testate del Consorzio di giornalismo investigativo Icij di cui L’Espresso fa parte da anni.

Ci potrà anche stimolare a indirizzarci verso una direzione sconosciuta o dimenticata, può perfino disegnare degli scenari, la cui plausibilità tocca però a noi dimostrare nella realtà. Può stabilire dei nessi tra numeri neutri, dimostrando l’incidenza di fenomeni che sospettiamo essere interdipendenti ma che l’ostinazione delle percentuali dimostra avere correlazioni di causa ed effetto.

Ci aiuterà a stanare dei falsi quando crediamo di aver messo le mani sulla prova regina, sulla dichiarazione bomba, sulla foto che non lascia spazio all’immaginazione. Può accelerare la nostra memoria e affinarla nelle ricerche di archivio. Può offrirci un modello sul quale costruire diagrammi e mappe che corredano il nostro lavoro.

Ma ci sarà sempre ancora una domanda da fare, un testimone da rintracciare, una fonte da consultare, un potente da incalzare prima di chiudere con un punto sullo schermo la riga finale del nostro articolo o un post social.

Nel flusso ininterrotto di notizie che non fanno l’informazione, a fare il giornalismo è la selezione di ciò che si ritiene meritevole d’attenzione, lo scrupolo della verifica e l’osservazione diretta, il filtro degli occhi e delle orecchie, la fatica e il piacere di andare e trovarsi dove accadono le cose. L’esperienza.

Infine, c’è la costruzione: ciò che crediamo di voler rappresentare, l’ordine di rilevanza degli elementi che intendiamo offrire, il modo in cui concateniamo gli eventi che illustriamo, la forma che diamo alla materia della vita che ci scorre davanti.

Contro ogni dittatura dell’immediatezza che spesso è nemica dell’accuratezza, i giornalisti, specie quelli d’inchiesta, sono visti come retrogradi attendisti nello scrupolo. Intendiamoci: l’ebbrezza di arrivare prima degli altri, marcare lo scoop, è ancora adrenalina che scuote dal torpore della routine. Anche in un settimanale che ha un proprio sito alimentato dal real time, sebbene nutrito costantemente dall’urgenza di approfondire, interpretare, svelare ciò che si vorrebbe restasse sconosciuto.

Ma la notizia non la si trova tra gli algoritmi, meno che mai tra quelli che si prefiggono di controllare l’informazione indirizzandola sotto il falso democratico del gusto e del gradimento del pubblico. Semmai, la si può ricavare cercando e cercando ancora, processando e incrociando dati. Ma ciò che si ottiene è un elemento di per sé insignificante, a dargli senso è ciò che costruiamo sopra o intorno e la perizia con cui lo facciamo.

Insomma, come lo furono i sistemi di stampa, il telefono, il fax, i primi computer che soppiantarono le macchine per scrivere, gli archivi digitali al posto di cartelle e ritagli, gli strumenti di ricerca nei database, anche l’intelligenza artificiale è un arnese, che offre delle opportunità se resta un mezzo che usiamo, un assistente del quale ci avvaliamo, con coscienza e imponendoci dei limiti.

È certo più insidioso degli altri, più invasivo e pervasivo, se spinto a violare il confine dell’intangibile. Pericoloso se utilizzato in modo maldestro, offensivo in ugual modo se rivolto contro noi stessi e i lettori. Perché insieme con loro costituiamo la comunità che fa di un settimanale come il nostro non una merce, ma uno strumento di consapevolezza. Un’intelligenza. Collettiva.

A cura di Enrico Bellavia