La transizione sostenibile come leva industriale

La transizione sostenibile come leva industriale. Se è anche sostenuta dalla qualità del lavoro ecco che il modello di business acquista una particolare solidità economica. Questa è la visione condivisa da Renco Group SpA, una holding che affonda le radici a Pesaro e che crede nel valore di reinvestire nei contesti in cui si costruisce, generare impatto e non  limitarsi alla filantropia, per trasformare i cantieri in infrastrutture utili.
Per questo il progetto “Sette idee per cambiare l’Italia” è, per Renco, una naturale estensione del proprio modo di stare nell’economia reale: sostenere chi innova, generare condizioni per nuove imprese, attrarre talenti. L’Italia eccelle nella tecnica ma fatica a scalare perché la governance non cresce allo stesso ritmo delle idee. Del rapporto tra visione e metodo abbiamo parlato con Enzo Raho, direttore del Dipartimento di qualità e sicurezza di Renco.  

Quanto il valore di un’idea può essere fondamentale per mettere in atto un cambiamento concreto? 

Renco crede molto nel valore del cambiamento: la transizione energetica è parte del nostro core business, ma anche la qualità del lavoro e un approccio che integri le tre dimensioni Esg: tutela ambientale, attenzione alle persone e alle comunità coinvolte nei nostri progetti, solidità economico-finanziaria. Questo percorso richiede imprenditorialità e innovazione, attrae talenti soprattutto tra le nuove generazioni. L’iniziativa “Sette idee per cambiare l’italia” è in piena sintonia con lo spirito originario dell’azienda: quando realizziamo opere per grandi player internazionali tendiamo a reinvestire nei territori in cui operiamo — strutture, hotel, servizi — ascoltando i bisogni delle comunità locali. Non è solo filantropia: è un modello win-win che genera valore condiviso e alimenta ulteriore iniziativa imprenditoriale.

Il settore industriale italiano produce eccellenza tecnica ma fatica a scalare. Perché molte idee restano “pilota” e non diventano paradigma? Il limite è tecnologico o di governance?
Entrambi gli aspetti contano, ma il nodo principale è la governance. Serve rafforzare managerialità, pianificazione, organizzazione e lavoro in team. In Italia ci affidiamo ancora troppo al carisma del “capo” e all’intuito, qualità preziose ma insufficienti per durare e competere a livello internazionale. Dove si pianifica meglio, si investe meglio: tecnologia, processi e visione d’impresa crescono insieme. 

Il valore della pianificazione, e dell’osservazione dei contesti in cui si opera, sono determinanti. Ci faccia un esempio concreto.

Penso al distretto del mobile di Pesaro, eccellenza che non ha però saputo cogliere per tempo i cambiamenti sociali e demografici in atto: le famiglie diventavano numericamente più piccole, le abitazioni hanno occupato spazi sempre più ridotti, i divorzi e le seconde case, anche i cicli di vita dei prodotti sono diventati sempre più brevi. In questo nuovo scenario sono stati i colossi come Ikea che hanno saputo ridefinire il mercato.
La lezione è chiara: leggere i segnali, programmare, strutturarsi.

La sua idea per cambiare l’Italia?
Potenziare la dimensione culturale e organizzativa. In molti ambiti privilegiamo il tecnico e il legale, ma trascuriamo leadership, comunicazione, pianificazione. Lo si vede anche nella sicurezza sul lavoro: a fronte di buona ingegneria e di norme sempre più fitte, gli indicatori restano deludenti. La visione non può dipendere solo dal singolo imprenditore “illuminato”: va coltivata e diffusa. La mia esperienza all’estero — Canada, Arabia Saudita, Turchia — conferma che il vero salto avviene quando il rigore tecnico-legale si combina con cultura manageriale, responsabilità diffusa e capacità di guidare le persone. Trovare questo equilibrio ci permetterebbe di occupare il posto che meritiamo.

A cura di Mariapia Ebreo