La caduta degli Dei nella Silicon Valley

Nel 1990, quando nella Silicon Valley il boom dei PC apriva la strada alla rivoluzione di Internet, la rivista conservatrice Upside lanciava in copertina una provocazione: “Has Silicon Valley gone pussy?”. Si è rammollita, è diventata troppo sensibile. Secondo i detrattori, bisognava tornare alla virilità del maschio imprenditore: combattivo e amante del rischio.

Dietro questa retorica muscolare qualcuno già intravedeva una deriva autoritaria, dissimulata sotto il luccichio dell’innovazione; “tecnofascismo”, l’aveva definita il giornalista Michael Malone.

Recentemente Becca Lewis, ricercatrice di Stanford, ha ripreso il concetto sul Guardian: «Le tendenze reazionarie (che celebrano ricchezza, potere e mascolinità tradizionale) sono evidenti fin dagli albori». Secondo l’esperta, la svolta a destra con il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca non è «un’anomalia», quanto un atteggiamento «che poggia sulle fondamenta della Silicon Valley». Dunque, non solo motivato dalla necessità di ingraziarsi un presidente punitivo con chiunque non si allinei alla sua agenda.

La giravolta di personaggi come Sergey Brin, cofondatore di Google, è emblematica: nel 2017 manifestava contro il “travel ban”, otto anni dopo festeggia il ritorno del tycoon. Mark Zuckerberg, fino a ieri considerato un filantropo progressista, oggi smantella tutti i programmi di inclusività in Meta, fa pochissimo per arginare la disinformazione e lamenta come la cultura aziendale si sia allontanata dall’«energia maschile». Elon Musk, un tempo finanziatore di Obama, ora guida una crociata anti-woke, trasformando X in un megafono della destra estrema, ed è stato parte della nuova amministrazione.

Nonostante la maggioranza della comunità continui a riconoscersi in valori progressisti, questi cambi di rotta mostrano il vero volto dell’élite tech. Come nota Vox, all’inizio molti leader di ispirazione libertaria accettano le cause della sinistra liberal su temi quali l’espansione dello stato sociale e la tassazione progressiva, in cambio di tolleranza su regolamentazioni e sviluppo digitale.

Un approccio “liberaltariano”, ibrido, che funziona finché i profitti altissimi tamponano tasse maggiori. Ma nell’era Biden il boom si sgonfia e il governo lancia una stretta antitrust contro Amazon, Google, Meta, Apple e Microsoft. Intanto, dopo gli scandali legati a disinformazione, privacy e manipolazione online, anche l’immagine pubblica dei protagonisti di Big Tech peggiora: da innovatori a potenziali minacce.

«Musk, Peter Thiel (fondatore di PayPal e Palantir, n.d.r.), i ragazzi dell’intelligenza artificiale e i crypto bros mi ricordano gli industriali degli anni Trenta che si avvicinarono rapidamente a Hitler e lo sostennero ottenendo due cose: deregolamentazione e nuovi mercati», spiega a L’Espresso Fred Turner, storico delle tecnologie dei media a Stanford.

In realtà, l’idea originaria secondo cui i pionieri delle nuove tecnologie avrebbero regalato al mondo più libertà, conoscenza accessibile a tutti e quindi decentralizzazione del potere è naïf. «Era una visione creata e promossa da persone che avevano sperimentato una vita relativamente priva di difficoltà. Parliamo di professori universitari, gente del settore tecnologico, classi istruite».

Per contestualizzare meglio, occorre fare un passo indietro, ricordando il contesto in cui si afferma la cultura tech. «Internet nasce alla fine degli anni Sessanta come progetto governativo, per connettere sistemi informatici presenti in varie università e istituzioni. In California è la stagione della controcultura, in cui si sviluppano i movimenti pacifisti, ambientalisti, femministi, per i diritti civili».

Quando negli anni Settanta e Ottanta queste spinte si affievoliscono, «le persone provenienti da quel mondo iniziano a lavorare nell’industria tecnologica, portando con sé l’entusiasmo per la connessione reciproca. Pensano che Internet sarebbe stato aperto a tutti e alle stesse condizioni, ma questa è sempre stata una fantasia. E il capitale ha iniziato da subito a monetizzare».

Negli anni Duemila emergono i social media, che sembrano destinati a completare il sogno dell’interconnettività. L’elezione di Barack Obama nel 2008 e la Primavera Araba nel 2010-2011 – durante le quali si attribuisce a Facebook, Twitter e YouTube un ruolo centrale nelle mobilitazioni – rafforzano l’idea che questi strumenti possano promuovere la democrazia.

«In realtà diventano il motore di quello che Shoshana Zuboff definisce “capitalismo della sorveglianza”», dice lo studioso. «Oggi siamo in un nuovo ciclo, un’epoca di estrazione; produciamo dati a ritmi forsennati, e i professionisti che conducono il gioco sono quelli che possono usarli, creando una scala di profitto inaudita».

Zuckerberg lo ha capito da subito. «Si pone come un leader creativo e giocoso e in parte lo è. Ma è anche la persona che quando ha fondato Facebook ha voluto una struttura azionaria che gli garantisse il controllo totale, senza consiglio di amministrazione».

Secondo lo storico, insomma, aveva creato una narrativa simile a quella di Steve Jobs con Apple: la realizzazione dei principi della controcultura, mentre «in realtà entrambi hanno costruito feudi personali, dittature».

L’immagine stessa che abbiamo è fuorviante. Nel suo bestseller Seeing Silicon Valley, Turner ha smontato lo stereotipo di un luogo in cui la ricchezza è equamente distribuita e gli uffici sembrano parchi giochi. «La mitologia era costruita intorno ai personaggi famosi, mentre la vasta classe lavoratrice era invisibile».

Come chi opera nelle mense, aperte tutta la notte per soddisfare i bisogni degli innovatori, o gli addetti alla sicurezza e alle pulizie. «Negli ultimi anni, circa il 30 per cento degli abitanti non ha guadagnato abbastanza da poter vivere senza l’aiuto dello Stato».

Il “Silicon Valley Pain Index” 2025 restituisce una fotografia di ineguaglianza, dove nove famiglie detengono il 15 per cento della ricchezza totale, mentre il costo della vita diventa insostenibile per buona parte dei lavoratori e la crisi abitativa è in aumento.

Se un tempo i geni hi-tech erano celebrati come semidei, oggi molti appaiono come figure opache, incapaci di incarnare le promesse della rivoluzione digitale. Proiettati a influenzare la politica, di destra e di sinistra, con ingenti donazioni. Zuckerberg è ormai visto da tanti come l’emblema del male. Roger McNamee, investitore di peso, ha coniato il termine “zucked” per descrivere la logica della piattaforma che, secondo lui, manipola e sfrutta «il tuo voto, i tuoi diritti, la tua privacy, tutto».

Le stesse criptovalute, nate da un’ideologia libertaria che mirava a sottrarsi al controllo di governi e banche, si sono trasformate in mezzi di potere. Oggi il settore esercita un’influenza crescente sulla politica americana, attraverso lobby, finanziamenti elettorali e scontri regolatori. Basti pensare al pulviscolo di coin che ruota attorno alla galassia Trump.

Il sogno di libertà della Silicon Valley, conclude Turner, è naufragato non solo per ragioni economiche, ma anche per la fragilità dell’idea su cui si fondava: che la democrazia nasca automaticamente quando tutti hanno voce.

«Internet ci ha mostrato che quando parlano tutti, nessuno ascolta. Chi vuole dominare lo spazio pubblico lo fa, come disse Steve Bannon, inondandolo: una tattica per indebolire le istituzioni che filtrano le informazioni. Così si smarrisce la verità».

E questo spaesamento spinge verso leader autoritari, come Trump o Bolsonaro. Per il professore, l’unico modo per resistere è costruire e sostenere le istituzioni che l’attuale inquilino della Casa Bianca cerca di smantellare: restare al loro interno, rispettarne le regole ed esercitare il potere che esse conferiscono.

A cura di Manuela Cavalieri e Donatella Mulvioni