

Alberto Luna - senior advisor e board member di Dscovr srl – parla dell’Italia come di “un Paese che amo e a cui sono felice di appartenere”, pur con tutte le difficoltà insite in un sistema che fatica a guardare all’innovazione dalla giusta prospettiva, quella del sostegno allo sviluppo delle idee migliori. L’Espresso l’ha incontrato per approfondire gli aspetti dell’innovazione ‘messa in campo’ dalle Startup italiane.
Si può cambiare l’Italia mettendo in campo “sette idee” di valore?
Poter aderire a questo progetto di cambiamento, promosso da una media company che si sta rilanciando, portando contenuti su sostenibilità, tecnologia e altro, permette di ampliare la discussione e la conoscenza. È sempre opportuno dare una mano e contribuire: tutto ciò che promuove confronto di idee e punti di vista va sostenuto.
Che cosa deve migliorare dal punto di vista normativo e strutturale in Italia per favorire una crescita organica dell’ecosistema startup?
Partiamo da una considerazione oggettiva: siamo un Paese con poca propensione al rischio, culturalmente parlando. I fondi di Venture Capital hanno tempi e modalità molto più lente e prudenti rispetto all’estero, e tendono a rischiare meno anche in termini di capitale.
Un altro tema importante è la scarsa cultura imprenditoriale tra i giovani che decidono di avviare una startup. Da una parte c’è lentezza nel reagire e una grande burocrazia — uno dei mali del Paese – e dall’altra ci sono giovani capaci ma che non hanno idea di cosa significhi davvero fare l’imprenditore. Ci si può improvvisare fino a un certo punto, poi servono competenze solide e il team è fondamentale. Io guardo molto agli equilibri e alla complementarietà delle persone, oltre al modello di business che propongono. A volte ci sono progetti interessanti, ma quando chiedi come arrivano sul mercato o quanto costa farlo, capisci che chi hai di fronte non sa ancora come passare “dal seme allo scaffale”, cioè dall’idea al mercato.
Un limite reale, a quanto pare molto diffuso. Ma ci sono eccezioni?
Ci sono però realtà come Bending Spoons, che oggi fa acquisizioni all’estero e chiude round da centinaia di milioni. Perché? Perché sono tecnicamente preparati e hanno deciso di giocare una partita internazionale. Il consiglio che do ai giovani imprenditori è di ragionare almeno in un’ottica europea. Non si può pensare “inizio in Italia e poi vediamo”: la partita non è più nazionale. Il vecchio “piccolo circolo” non esiste più; oggi si gioca in tutta Europa.
Bending Spoons è nata qui, con fondatori italiani, ed è un caso mondiale. Questo dimostra che si può fare, ma devi considerare il mondo come playground. Oggi è possibile dialogare non solo in Italia ma a livello internazionale con fondi Venture e associazioni che facilitano scambi di idee e startup. Serve spirito pionieristico e la capacità di guardare oltre i confini.
Qual è la tua idea per cambiare l’Italia?
Partirei da un tema fondamentale: oggi il 48% degli italiani paga le tasse e il 52% no. Chi le paga sostiene i servizi per tutti — scuola, ospedali, sicurezza. Finché c’è questo squilibrio, metà Paese “non esiste” ed è sommerso. È difficile parlare di Italia se è divisa in due. Bisogna rimettere a posto questa percentuale: finché un 52% de facto non contribuisce, ogni ragionamento sul Paese è complicato. La mia idea per cambiare l’Italia è partire da questo fondamentale: la parte contributiva.So che ti aspettavi una risposta su tecnologia, ma aggiungo anche che bisogna rafforzare i distretti industriali e insegnare che la cultura del rischio e la leva del debito sono strumenti di crescita. In Italia basta indebitarsi un po’ e le banche vanno in fibrillazione. Se avessimo guardato i libri contabili dei primi dieci anni di Amazon, l’avremmo fatta chiudere cento volte per bancarotta. E invece Bezos spiegava chiaramente che il debito era leva di crescita, e aveva ragione.C’è poi un altro problema: il costo del lavoro. Per far crescere un’azienda devi ampliare il team, assumere persone, investire capitale umano. Ma se le aziende clienti hanno flessioni o tempi di risposta lenti — cosa che capita spesso — rischi di non riuscire a mantenere il personale, e quindi chiudi. Per questo molti non assumono, pur crescendo: allargano il business ma offrono un customer care sempre più basso, perché fanno in cento ciò che dovrebbero fare in mille. Bisogna intervenire anche su questo.