

Fabiano Spano lavora tra l’ombra degli ulivi e la pietra calcarea della Puglia e nel suo studio l’architettura è anche un fatto climatico. Insieme a Valentina Rubrichi e Susanna Tundo ha fondato Alami, studio che progetta edifici a basso impatto, integrati nel paesaggio, energeticamente efficienti. Non creano per lasciare un segno, ma per ridurne la traccia. Non costruiscono case da abitare, ma case che abitano il Pianeta.
Il suo profilo non è unico. È uno dei volti, forse ancora troppo poco visibili, di un cambiamento che sta attraversando il mercato del lavoro: quello delle professioni verdi. L’etichetta può sembrare vaga, ma corrisponde a un fenomeno strutturato e crescente. Secondo i dati del Sistema Informativo Excelsior di Unioncamere e ANPAL, nel 2023 il 41,8 per cento delle nuove assunzioni in Italia ha richiesto competenze green, legate alla promozione della sostenibilità, alla riduzione dell’impatto ambientale e all’efficienza energetica. Entro il 2027, si stima che oltre 2,4 milioni di lavoratori italiani saranno attivi in settori collegati alla transizione ecologica. Non si tratta solo di nuovi mestieri, ma di una trasformazione trasversale che riscrive le competenze richieste in quasi ogni settore. Alcuni ruoli sono nati ex novo: tecnici delle energie rinnovabili, esperti in gestione ambientale, progettisti di mobilità sostenibile, specialisti di agricoltura rigenerativa. Altri sono mutazioni di professioni e mestieri esistenti, come nel caso di Spano: architetti e ingegneri che progettano opere più green, muratori che devono conoscere materiali a basso impatto, ristoratori che riorganizzano i cicli di approvvigionamento, docenti che integrano la sostenibilità nei programmi didattici. L’elemento comune è l’adattamento, un lento, quotidiano esercizio di riqualificazione.
In edilizia, il cambiamento sembra essere particolarmente urgente. Circa il 40 per cento dei consumi energetici in Europa proviene, infatti, dagli edifici. La direttiva europea EPBD IV, approvata nel 2024, impone entro il 2030 una riduzione del 16 per cento nei consumi energetici medi residenziali e l’obiettivo di un patrimonio edilizio a emissioni zero entro il 2050. È una norma vincolante. Chi lavora nel settore è già dentro una riconversione tecnica a tutto campo: nuove metriche di efficienza, nuovi standard costruttivi, nuovi materiali, nuove responsabilità, e un’attenzione inedita anche da parte del cliente, quella alla sostenibilità.
Ma la transizione si allarga ben oltre l’edilizia. In agricoltura, crescono le richieste per tecnici capaci di gestire suoli degradati, ridurre l’uso di fertilizzanti chimici, incentivare la biodiversità, introdurre tecniche rigenerative. Nell’industria, si cercano competenze per la gestione del ciclo di vita dei prodotti, per il recupero di materiali, per l’adozione di processi meno emissivi e più circolari.
La formazione, intanto, rincorre. Gli istituti tecnici superiori dedicati alle competenze ambientali sono in crescita. Le università aggiornano i piani di studio: proliferano corsi su materiali bio-based, impianti rinnovabili, tecnologie pulite. Si sperimentano percorsi ibridi, co-progettati con le imprese, per ridurre la distanza tra studio e lavoro. Ma la sola formazione tecnica non basta. Le professioni verdi richiedono anche di mediare tra obiettivi ambientali e sostenibilità economica, tra richieste del cliente e vincoli pubblici, tra innovazione e praticabilità. Il risultato non è una nuova élite di specialisti, ma una fitta rete di figure ibride, competenti e intermedie. Eppure, questa evoluzione non riguarda soltanto le competenze tecniche. Chi lavora nella transizione ecologica finisce spesso per ridefinire anche il proprio rapporto con il tempo, con il territorio, con le priorità del vivere. La sostenibilità diventa una grammatica comune, che orienta scelte progettuali, ma anche personali. Cambia il modo di pensare il lavoro: non più come mera produzione, ma come forma di cura. Cura dell’ambiente, delle risorse, delle comunità.
La maggior parte di queste nuove professioni si sviluppa quasi marginalmente: nei borghi dell’entroterra, nelle aree industriali dismesse, nelle periferie. Qui la transizione non ha il volto della sperimentazione futuristica, come nelle grandi città. Ha quello della manutenzione, dell’adattamento, del compromesso. Si lavora sull’esistente: si recupera, si isola, si rende efficiente. Ogni intervento è in equilibrio tra ciò che è necessario e ciò che è possibile. E ogni progetto è anche un esercizio di realismo: perché fare ecologia non significa fare tutto, ma fare meglio con quello che c'è.
Il quadro globale è preoccupante. L’Organizzazione Meteorologica Mondiale segnala che, tra il 2025 e il 2029, c’è un’alta probabilità che la temperatura media globale superi il limite fissato dall’Accordo di Parigi: una soglia oltre la quale gli effetti del cambiamento climatico diventerebbero più gravi e difficili da controllare. Oltrepassare questo limite significa un aumento di eventi estremi come siccità prolungate, alluvioni devastanti, perdita di biodiversità e insicurezza alimentare, con il pericolo che alcuni di questi danni diventino irreversibili. Ed è proprio in questo scenario che le professioni verdi acquistano peso e concretezza.
E, anche se, da sole, non possono essere un atto salvifico né una garanzia, hanno il potenziale di mitigare gli effetti dell’azione umana. Non risolvono la crisi climatica, ma operano nel tentativo di contenerla. Non salvano il pianeta. Ma hanno lo scopo di renderlo, per un tempo ancora possibile, più abitabile.
A cura di Ludovica Privitera