Il dilemma del pesce green

Il pesce fa bene. Ma il mare è in pericolo. E un’alimentazione sana si scontra con ostacoli sempre maggiori, che finiscono per danneggiare comunità che vivevano di pesca tradizionale e consumatori demotivati da prezzi sempre più alti. Della salute del mare hanno parlato recentemente a Nizza i rappresentanti di settanta Paesi durante la terza Conferenza delle Nazioni Unite sugli oceani, ospitata da Francia e Costa Rica: un’occasione unica per «trasformare l’urgenza in azione» l’ha definita Jérôme Bonnafont, rappresentante permanente della Francia presso l’Onu, che ha parlato di «un’emergenza ecologica» causata da cambiamenti climatici, inquinamento e sfruttamento indiscriminato, che si traduce in gravi minacce per la biodiversità. Scopo della conferenza era cercare accordi globali contro l’inquinamento da plastica e la pesca industriale (due fenomeni collegati) e contro l’estrazione mineraria dei fondali marini, una pratica distruttiva che rischia di trovare nuove spinte nella ricerca ossessiva di nuove fonti di terre rare. Sono anni che i nutrizionisti ripetono quanto sia salutare mangiare pesce.

Una nozione che ha preso sempre più peso negli ultimi anni perché confermata dall’importanza da un punto di vista ambientale della diversificazione degli alimenti. Quando si è messa a fuoco la quantità di co2 necessaria per produrre ogni chilo di carne rossa (la stima è tra 12 e 13 chili), l’alternativa più semplice è sembrata il pesce. Questo però ha finito per spostare il problema dalla terra al mare, dalle praterie invase da allevamenti intensivi di bovini agli oceani attraversati da navi da pesca sempre più gigantesche. Alcune pratiche di pesca particolarmente dannose sono state vietate, ma solo in alcuni tratti di mare. Proprio la Francia, che alla conferenza Onu di Nizza faceva gli onori di casa e aspirava al ruolo di prima della classe, è molto criticata perché non appoggia l’approvazione a livello mondiale del bando delle reti a strascico, (varato dal Consiglio Europeo con l'obiettivo di eliminarla gradualmente entro il 2030), ma lo impone solo nelle aree marine protette. È vero che anche l’Italia si è opposta al divieto europeo, ma c’è una differenza notevole: mentre le coste italiane sono solo quelle del Mediterraneo, la Francia, grazie alle colonie sparse per il mondo, vanta la seconda area marittima più vasta del Pianeta, dopo gli Usa. E non sono solo i fondali a soffrire per colpa di sistemi di pesca non rispettosi dell’ambiente: è l’acqua stessa a subire danni. Secondo un calcolo delle banche dati Statista e Our World in Data su cifre dell’OCSE, gli oceani sono inquinati da una quantità di rifiuti di plastica il cui peso è stimabile tra i 75 e i 199 milioni di tonnellate, e ogni anno si aggiungono poco meno di 15 milioni.

Di questo passo, nel 2050 il peso della plastica supererà quello di tutti i pesci presenti nel mare. Di questa massa di rifiuti, il 20 per cento deriva dalla pesca industriale: reti, lenze e altro materiale di plastica resistentissima finiscono in continuazione in mare, dove si decompongono molto lentamente. E una volta decomposti, questi rifiuti diventano nuovamente pericolosi: l’attrezzatura da pesca si scompone in particelle (microplastica e nanoplastica) che possono essere ingerite da tutti gli organismi marini, concentrandosi man mano che si accumulano lungo la catena alimentare, e arrivando a “colonizzare” anche gli esseri umani. Inquinamento dell’acqua, presenza di plastica e aumento della temperatura incidono sulla quantità del pesce ma anche sulla qualità: l’anno scorso il Living Planet Report del Wwf ha denunciato un calo del 73% in 50 anni della dimensione media delle popolazioni globali degli animali selvatici: il calo più forte si registra negli ecosistemi di acqua dolce (-85%), seguiti da quelli terrestri (-69%) e poi da quelli marini (-56%). America Latina e Caraibi, dove gli effetti del riscaldamento globale si fanno sentire già da anni, hanno registrato un calo impressionante: in cinquant’anni la dimensione media degli animali selvatici (anche pesci) è diminuita del 95%.

La maggior parte del pesce che mangiamo, però, non viene più pescato in mare. Pochi mesi fa è arrivato il sorpasso: sul mercato mondiale i pesci provenienti da allevamenti hanno superato quelli catturati. Lo ha dichiarato il rapporto della Fao sull’acquacoltura, che con il 51% della produzione totale è diventata la principale fonte mondiale non solo per i pesci ma per crostacei e molluschi destinati all’alimentazione umana. La maggior parte degli allevamenti è sulla terraferma (il 62,6% della produzione) e produce in tutto 730 specie diverse: sono 17 però quelle che monopolizzano il 60 per cento della produzione. E qui tocchiamo un altro fattore del dilemma del pesce green: la predilezione per poche specie di pesci (tonno, merluzzo, salmone) porta a una pesca selettiva, che spinge i pescatori a ributtare in mare gran parte delle specie che finiscono nelle reti, e ad allevamenti intensivi che infestano di antibiotici e mangimi interi tratti di mare. L'acquacoltura biologica però è in aumento, almeno nell'Unione europea: sebbene rappresenti meno del 7 per cento della produzione totale, tra il 2015 e il 2020 è cresciuta del 60 per cento. È la strada giusta per mettere d’accordo rispetto della salute e della natura, senza dimenticare l’aspetto importantissimo di assicurare ai pesci, come agli altri animali d’allevamento, la miglior qualità di vita possibile.

A cura di Angiola Codacci-Pisanelli