Conservazione della natura: è una cosa che di regola ha sempre interessato assai poco politici, benpensanti e direttori di giornali, normalmente occupati in fatti più “urgenti” o più “attuali”. L’esempio del presidente degli Stati Uniti che dedica i suoi messaggi al Congresso alla salvaguardia delle foreste e delle rive dei fiumi e convoca nel 1965 una conferenza alla Casa Bianca, cui partecipano mille specialisti, per studiare il modo migliore di tramandare ai posteri, conservata e aumentata, la “bellezza dell’America” oppure l’esempio dell’Unione sovietica che appronta un piano per la costituzione di 150 nuovi parchi nazionali per 800.000 ettari da aggiungere al milione e mezzo di ettari esistenti, non sono tali da commuovere i nostri uomini di governo, né la cultura italiana in genere. Che poi in Svizzera si spenda un miliardo in più per deviare il tracciato di una nuova strada, allo scopo di salvare certe felci scomparse nel resto d’Europa, questo farebbe addirittura cascar per terra dalle risa i responsabili della nostra economia. Salvare la “Osmunda regalis”! Immaginatevi l’Anas, che in appena due anni ha sterminato 100.000 alberi lungo le strade della penisola. In realtà, la conservazione della natura noi non sappiamo nemmeno cosa sia. Siamo i più arretrati del mondo anche in questo campo, mi dice il professor Valerio Giacomini dell’Istituto di botanica dell’università di Roma: mancano i tecnici della conservazione del suolo e delle sue risorse; nelle facoltà di agraria l’ “ecologia” (lo studio cioè dei rapporti, degli equilibri fra vita e ambiente) è materia complementare, non esistono trattati scientifici in materia, non ci sono capitoli dedicati ad essa nei testi universitari. L’unico organo che lavori in questa direzione è la commissione per la conservazione della natura del Consiglio nazionale delle ricerche, che è puramente consultiva, che non ha fondi, che formula voti regolarmente cestinati dagli enti destinatari: non esiste niente che assomigli alla Royal Society of Science inglese, all’Accademia delle scienze di Leningrado, alla National Academy di Washington, al Conseil National pour la Protection de la Nature francese, e via dicendo. Nelle nostre università è impossibile svolgere un'attività didattico-dimostrativa sulla conservazione del suolo: all’Istituto di botanica di quella romana ci sono due professori titolari e sei assistenti per milletrecento studenti. L’orto botanico alle pendici del Gianicolo, già in condizioni precarie, si regge praticamente sui proventi delle riprese cinematografiche (Tarzan, Bibbia e simili): dopo di che non ci sarà da meravigliarsi se il parco nazionale d’Abruzzo, una volta considerato tra i più preziosi “santuari” della natura in Europa, sia stato massacrato dalle lottizzazioni, col beneplacito dei forestali e con i fondi della Cassa del Mezzogiorno, così da provocare la sdegnata protesta dell’”Union internationale pour la conservation de la nature” (UICN).
Non è un caso se siamo gli ultimi in fatto di stanziamenti per la ricerca scientifica (lo 0,64 del reddito nazionale): nessuno, del resto, dei docenti da noi interrogati, si ricordava il nome dell’attuale ministro della Ricerca Scientifica. La conservazione del suolo, del territorio, della natura non si sa nemmeno da chi dipenda: non certo dal ministero della Pubblica Istruzione, con le sue vecchie leggi fatte apposta per favorire l’invasione edilizia di boschi, dune, pinete e foreste, mentre la parola “natura” non figura nemmeno nella Costituzione che preferisce, senza impegno, «tutelare il paesaggio»: nemmeno nei corsi della facoltà di scienze troviamo un esplicito riferimento alla scienza della conservazione nel suo complesso. Acquista dunque un valore sensazionale il fatto che a far parte di una commissione recentemente nominata dal ministro dell’Agricoltura per la revisione della legge sulla montagna sia stato per la prima volta chiamato un naturalista.