

La Commissione europea è ottimista. Il Patto verde, che dovrebbe traghettarci in un mondo sostenibile cambiando il nostro sistema economico e le nostre abitudini quotidiane, non è morto. Anzi, gli obiettivi per il 2030 potranno essere raggiunti quasi del tutto grazie all’impegno di alcuni Stati europei particolarmente virtuosi.
Ma davanti a noi non ci sono solo cinque anni politicamente complicati. C’è anche il difficilissimo obiettivo del 2040: la riduzione delle emissioni del 90 per cento, per cui la Commissione presenterà la sua proposta il 2 luglio, con molti governi di estrema destra che annunciano sabotaggi, e il traguardo finale su cui al momento concordano tutti, ovvero la completa neutralità carbonica nel 2050.
Se gli Stati europei non si faranno influenzare dalle turbolenze di Oltreoceano e continueranno sereni il loro percorso, nel 2030 riusciranno a ridurre le emissioni di anidride carbonica del 55 per cento rispetto ai livelli del 1990, secondo quanto scrive il “Joint Research Center” in un suo recente rapporto sul pacchetto legislativo intitolato Fit for 55.
Il Patto verde, chiesto a gran voce dalla popolazione europea negli anni precedenti al Covid, sulla scia di dati sempre peggiori sulla salute del pianeta, è l’insieme di obiettivi tra loro diversi ma interconnessi che si è data l’Unione europea per garantire la sostenibilità del pianeta Terra nel lungo periodo. Riguardano sei macroaree: le ambizioni climatiche, l’energia sicura e pulita, l’economia circolare, la mobilità intelligente e sostenibile, l’inverdimento della politica agricola europea e la strategia “dalla fattoria alla forchetta” per l’approvvigionamento alimentare, la protezione della biodiversità e la creazione di un ambiente a zero inquinamento. Per ognuna di queste macroaree, le istituzioni europee hanno votato negli ultimi sei anni regolamenti e direttive comuni con nomi creativi e obiettivi vincolanti, come “L’ondata delle ristrutturazioni” o “Repower EU” sull’energia, oppure comunicazioni e proposte non vincolanti come “La strategia sulla biodiversità”.
Secondo il recente rapporto scientifico, il Green Deal è ben avviato, ma il progresso è disomogeneo e in molte aree servirebbe una vera accelerazione. Dei 154 obiettivi analizzati in 44 documenti politici elaborati tra il 2019, data di lancio della rivoluzione verde e digitale, e il 2024, solo 32 rispettano i tempi. Per altri 64, cioè il 41 per cento del totale, sono stati fatti progressi, ma non sufficienti. Sul 10 per cento non c’è stato nessun progresso, o si è addirittura fatta marcia indietro, mentre per poco meno di un terzo (43 obiettivi) non ci sono dati, o perché non sono ancora disponibili o perché non c’è stato nessun tentativo di implementazione.
L’Italia è la leader dei Paesi più in ritardo nell’applicazione delle direttive e dei regolamenti attuativi del Green Deal: «Come se fosse sicura che tanto saranno cancellati», sottolinea Enrico Giovannini, presidente dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile. In fondo alla classifica ci sono anche Grecia, Irlanda, Cipro e Polonia. A penalizzarci non è soltanto la colpevole mancanza di un piano per l’efficienza energetica di edifici e trasporti e la mancata applicazione delle proposte sulla riduzione dell’utilizzo di suolo, ma anche il crollo delle energie rinnovabili, settore in cui fino a due anni fa brillavamo. Per non parlare della direttiva “Case green”, che al momento non è stata nemmeno recepita. A capeggiare il gruppo dei virtuosi è la Svezia, che ha già raggiunto gli obiettivi 2030 grazie all’uso massiccio di biomasse e pompe di calore, seguita da Malta, che ha raggiunto il target delle rinnovabili, da Estonia, Lettonia e Danimarca, quest’ultima leader nell’energia eolica e nella mobilità elettrica. Francia e Germania, invece, pur avendo elaborato i protocolli, devono accelerare sulla decarbonizzazione degli edifici e dei trasporti. Questi due ultimi ambiti sono diventati una questione più politica che fattuale, su cui hanno fatto leva i partiti di estrema destra per acquisire consensi e demonizzare l’Unione europea. Ad esempio, «quella che doveva essere una semplice posizione negoziale delle case automobilistiche per ottenere più fondi per la transizione e la compensazione per il blocco della commercializzazione dell’Euro7 è diventata una battaglia politica», dice Giovannini. Eppure, l’industria è ormai preparata per l’azzeramento dei veicoli alimentati da fossili tra dieci anni. Lo spostamento in avanti della data rischia invece di causare un danno di competitività al sistema manifatturiero europeo. «Il 2024 è stato l’anno peggiore per l’elettrico perché le case automobilistiche si sono disfatte di gran parte della vecchia produzione, ma adesso sono pronte a spingere l’acceleratore sull’offerta elettrica», sostiene Monica Frassoni, presidente dell’Alleanza europea per il risparmio energetico e per dieci anni segretaria generale dei Verdi in Europa, che, come Giovannini, dubita che l’obiettivo di zero nuove auto a combustione fossile nel 2035 sarà modificato perché, al di là delle polemiche, non gioverebbe a nessuno.
Fino a oggi, i regolamenti e le direttive approvate da Parlamento e Consiglio, dopo tante faticose revisioni, non sono stati toccati: emendare una direttiva significa far ripartire le discussioni e le votazioni tra le tre istituzioni, con il rischio che tutto l’impianto del Green Deal possa essere messo in gioco. «C’è grande pressione, ad esempio, per riaprire il pacchetto sull’efficienza energetica, ma il rischio è che venga cancellata la normativa sulle case verdi», dice Frassoni, dopo che molti Paesi si sono portati avanti con i lavori di ristrutturazione energetica.
Sul tavolo invece c’è un nuovo pacchetto, definito “Omnibus”, con cui la Commissione intende semplificare la direttiva del 2022 sulla rendicontazione di sostenibilità ambientale e sociale (CSRD), di cui la squadra di Ursula von der Leyen propone di modificare il perimetro di applicazione. Per i prossimi due anni, solo le imprese con più di mille dipendenti e con un fatturato superiore a 50 milioni di euro o un bilancio di oltre 25 milioni sarebbero tenute a farla, esonerando l’80 per cento delle imprese inizialmente coinvolte. Le imprese sotto i mille dipendenti slitterebbero al 2027, mentre le PMI quotate passerebbero dal 2026 al 2028. Inoltre, la Commissione limiterebbe ciò che può essere richiesto lungo la catena del valore alle imprese più piccole.
Resta da vedere come questi cambiamenti potrebbero incidere sul Green Deal e se l’Omnibus rischierebbe di aprire un vaso di Pandora impossibile da richiudere. Molte imprese sono scettiche sulla semplificazione perché hanno già messo a punto il sistema di rendicontazione e le università europee hanno già cominciato a formare i primi laureati pronti a occuparsene. Altri suggeriscono che per semplificare il procedimento basterebbe diminuire il numero degli obblighi, anziché spostare le scadenze, evitando continue incertezze: nel 2016 la rendicontazione era imposta alle aziende con più di 500 addetti, con la nuova normativa scenderebbe a 250, mentre con la revisione Omnibus salirebbe addirittura a mille. La stessa BCE, che in un suo blog recente ha messo in guardia contro la dipendenza energetica fossile come rischio geopolitico importante, avverte che la modifica delle regole di rendicontazione può creare caos nel sistema finanziario, più debole senza informazioni precise sui rischi che corrono le aziende.
Diversa è la situazione per gli obiettivi del 2040, perché nulla è stato ancora concordato. La proposta per tagliare le emissioni del 90 per cento è in lavorazione da tempo, ma si scontra con la riluttanza di molti governi a portare avanti i cambiamenti a livello nazionale. I due commissari all’ambiente, la spagnola Teresa Ribera e l’olandese Wopke Hoekstra, stanno prendendo tempo, alla ricerca di soluzioni condivise.
Un compromesso potrebbe essere quello di permettere agli Stati di utilizzare i crediti di carbonio internazionali per controbilanciare le emissioni nazionali, con l’avallo di Francia, Germania e Polonia. Ma gli scienziati del comitato scientifico della UE non sono d’accordo. In un rapporto appena pubblicato insistono che i tagli debbano avvenire internamente agli Stati e che quelli esterni possano essere aggiuntivi ma non sostitutivi: «Un obiettivo più basso non soltanto metterebbe a rischio il raggiungimento della neutralità climatica nel 2050, ma anche la sostenibilità dei progressi europei, la competitività dell’Unione e la sua sicurezza energetica in tempi di grande incertezza geopolitica», hanno scritto. Il vero banco di prova saranno le risorse destinate alla prosecuzione del Green Deal in un contesto politico frammentato e con la guerra ai confini. «Prima c’era una grande convergenza politica sul Patto verde, adesso non più», dice Frassoni. Che conclude: «Ma una scelta regressiva sarebbe controproducente per la competitività industriale europea, visto che i processi sono avviati, l’emergenza climatica è reale e, a differenza di 15 anni fa, ci sono nuove tecnologie che hanno dato vita a veri settori produttivi. Sarebbe da matti tornare indietro».
A cura di Federica Bianchi