Economia circolare podio da difendere

L'Inghilterra si ritrovò tra le mani ottima lana quando (nel Medioevo) la lana era la materia prima più ricercata; si ritrovò tra le mani ottimo e abbondante carbone quando (ai tempi della Rivoluzione Industriale) la materia prima più preziosa era il carbone; e si ritrovò tra le mani il petrolio del Mare del Nord quando (ai giorni nostri) il petrolio divenne la fonte di energia più usata nell’attività produttiva. In contrasto l’Italia ebbe poca e grama lana nel Medioevo, pochissimo e gramissimo carbone nella Rivoluzione Industriale, e pochissimo e gramissimo petrolio nell’epoca corrente. Il bisogno aguzza l’ingegno e gli italiani seppero come aguzzarselo». Così, in “Allegro ma non troppo”, con la sua straordinaria capacità di raccontare la storia attraverso la concretezza dei bisogni quotidiani, Carlo M. Cipolla sintetizza la lunga – e vincente – corsa dell’Italia a fare molto con poco, puntando sull’innovazione tecnologica, sulla capacità artigianale, sul riuso della materia. L’Italia è stata – e ancora è – leader nel campo dell’economia circolare. Ma questo primato rischia di essere infranto sul più bello, quando la posta si alza e competitor a lungo distratti cominciano ad accelerare annusando l’aria del tempo. Il costo delle materie prime è infatti aumentato e tutto lascia pensare che continuerà a crescere perché il progetto industriale basato sull’idea che il pianeta sia una miniera infinita e il mare una discarica infinita è fallito: le varie forme di inquinamento con cui siamo costretti a convivere stanno presentando il conto. Estrarre materia dalle viscere della Terra comporta molto spesso un prezzo alto in termini di danni locali (contaminazione dei suoli e delle acque) e globali (emissioni di gas serra che accelerano la crisi climatica).

E i numeri salgono in maniera vertiginosa. All’inizio del Novecento l’umanità consumava 6 miliardi di tonnellate di materiali. Nel 1970 si era arrivati a 30. Nel 2024 a 106 miliardi, con un tasso di aumento quasi doppio rispetto a quello della crescita demografica e la prospettiva di arrivare a 160 miliardi di tonnellate a metà secolo, in un pianeta sempre più caldo e sempre meno ospitale. Dunque se da mezzo secolo (“I limiti dello sviluppo” è stato pubblicato dal Club di Roma nel 1972) è chiaro che l’economia lineare (miniera-fabbrica-discarica) è insostenibile dal punto di vista ambientale, ormai è provata anche l’insostenibilità economica di questo processo. «Mai come ora è stato evidente che per rilanciare il Made in Italy l’economia circolare è un elemento fondamentale », ha detto Edo Ronchi, presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile presentando, di recente, il rapporto del Circular Economy Network. «Prima la pandemia, poi le due guerre alle porte dell’Europa, infine i dazi di Trump hanno prodotto aumenti dei prezzi di molte materie, grande incertezza e una maggiore difficoltà di approvvigionamento. Timori che alimentano l’instabilità internazionale e i conflitti». L’Italia non può permettersi di perdere la gara per la circolarità della materia, ha aggiunto Ronchi, perché su questo fronte è troppo esposta.

Nel 2023 la dipendenza dalle importazioni di materiali è stata del 48%, più del doppio della media europea (22%). E tra il 2019 e il 2024 la bolletta derivante da questa dipendenza è salita del 34% passando da 424 a 568 miliardi di euro, nonostante un calo delle quantità importate (da 310,9 milioni di tonnellate a 286,7 milioni di tonnellate). Questa difficoltà è arginata dall’antica attitudine al riutilizzo. Il rapporto Cen mostra come nel campo dell’economia circolare l’Italia sia prima tra le cinque maggiori economie europee e seconda tra i 27 Stati dell’Unione dopo i Paesi Bassi (che hanno un Pil molto meno legato alla manifattura del nostro). Nel 2023 l’Italia ha raggiunto una produttività delle risorse pari a 4,3 euro di Pil per ogni chilo di risorse consumate, a fronte di una media Ue di 2,7 €/kg. Secondo i calcoli del rapporto basterebbe un modello più avanzato di economia circolare (riduzione del 3,5% annuo del consumo di materiali, crescita del tasso di riciclo dell’1,5% annuo, taglio di produzione dei rifiuti dell’1%) per ottenere un vantaggio in termini di bilancia commerciale pari a 11,8 miliardi di euro all’anno. Anche le aziende, secondo Cassa Depositi e Prestiti, possono guadagnarci.

Nel 2024 – si legge in uno studio Cdp del febbraio 2025 – quasi metà delle imprese italiane aveva già adottato almeno una pratica di economia circolare. Complessivamente queste pratiche hanno generato un risparmio rispetto ai costi di produzione delle imprese manifatturiere superiore a 16 miliardi di euro. Ma si tratta solo del 15% del potenziale teorico stimato al 2030. Inoltre, prosegue l’analisi di Cdp, «negli ultimi tre anni, le imprese circolari hanno registrato una probabilità di default più bassa, anche in periodi contraddistinti da forti shock esogeni legati alle materie prime. Mostrano, inoltre, un più elevato potenziale innovativo, dovendo far leva su nuove tecnologie, nuovi processi produttivi e nuovi modelli di business. L’Italia risulta al secondo posto in Europa per numero di brevetti circolari, di cui oltre la metà depositati da Pmi». Restano deboli gli investimenti. Un punto sottolineato anche dal rapporto Draghi sulla competitività e dal rapporto Letta sul mercato unico dei capitali. Bisognerà trovare gli strumenti per incrementarli, se si vuole raggiungere l’obiettivo del Clean Industrial Deal, presentato dalla Commissione Europea nel febbraio scorso: raddoppiare il tasso di circolarità dell’economia europea, portandolo dall’11,8% del 2023 al 24% al 2030.

A cura di Antonio Cianciullo