

Quattro ingegneri collaborano alla progettazione di un viadotto. Sono in un Paese arabo e parlano tra loro in inglese, ma solo uno è madrelingua. E succede una cosa paradossale: l’ingegnere arabo, l’italiano e il francese si capiscono tra di loro senza problemi, ma il collega inglese è in difficoltà. Il progetto comunque va avanti, e la cosa più importante è che alla fine funziona. Malgrado le difficoltà del collega inglese, i tre ingegneri del resto del mondo si capivano davvero, e tanto basta: il viadotto regge.
Lo spaesamento di chi si trova in un Paese anglofono dopo aver studiato la lingua è noto: gli aneddoti sugli inglesi che si rifiutano di capire chi sta morendo di sete ma pronuncia male la parola “water” sono un classico. Paradossalmente però lo stesso spaesamento funziona anche al contrario: lo vivono le persone di madrelingua inglese davanti alla “loro” lingua parlata da chi viene dal resto del mondo. È uno spaesamento sempre più frequente ed è destinato ad aumentare con il diffondersi dell’Intelligenza artificiale. Qualche anno fa in Gran Bretagna alcuni osservatori hanno lanciato l’allarme perché si sono resi conto che le multinazionali preferiscono assumere tecnici che hanno l’inglese come seconda lingua, perché si capiscono tranquillamente tra di loro: inserire un inglese o un americano in un gruppo di lavoro invece rischia di rallentare tutto. Un paradosso? Non del tutto. Da decenni i linguisti hanno codificato o persino ideato da zero forme di inglese “universali”, caratterizzate da meno parole e da regole certe di grammatica e di pronuncia. Proprio cent’anni fa due anglisti delle opposte rive dell’Oceano, Ivor Richards di Harvard e Charles Kay Ogden di Cambridge (l’università inglese) cercarono di codificare un “Basic English”, con un lessico ridotto e regole grammaticali più semplici. Lo scopo era mettere ordine in quella che già allora sembrava la Babele di una lingua parlata in tutto il mondo, ma in mille modi diversi.
Qualche decennio dopo è nato lo Euro English, la variante più legata al funzionamento dell’Unione europea. È un idioma che alla nascita era fortemente influenzato dai termini tecnici delle commissioni e degli uffici comunitari, ma che si è diffuso e svecchiato molto grazie agli scambi Erasmus tra studenti universitari. L’influenza delle lingue d’origine dei giovani cresciuti nell’era Schengen ha aggiunto una quantità di termini della vita quotidiana e della socializzazione giovanile. Il risultato è una forma di inglese che, per quanto non autonoma, trova strade di originalità sempre maggiore. E questi mutamenti sono aumentati da quando la Gran Bretagna, l’unico Paese che considerava l’inglese come lingua madre, è uscita dall’Unione europea. Fuori dall’Europa, negli anni Ottanta del Novecento si è iniziato a parlare di “Standard English” come della lingua franca dell’economia e dell’industria mondiale. Da questo è derivato, dopo l’inizio del Duemila, l’idioma più recente che è stato chiamato ELF, dall’acronimo di Inglese come Lingua Franca, una forma che riconosce uno spazio maggiore alle innovazioni legate alla lingua madre di chi lo parla.
Tutti questi tentativi di mettere ordine nell’idioma più parlato al mondo sono destinati ad essere spazzati via dall’arrivo della Ia. Che sembra avviarsi a passo di marcia verso due direzioni diverse, anzi, addirittura opposte. Lo strapotere dell’inglese aumenterà, ovviamente: la cosiddetta “lingua killer” diventerà ancora più essenziale per chiunque abiti sul pianeta Terra. Le lingue minori però non hanno alzato bandiera bianca, anzi: la resistenza da parte di chi parla idiomi locali ha portato già a un ventaglio di traduzioni automatiche che rende meno importante la conoscenza dell’inglese. Basta guardare il ventaglio di opzioni offerte dal traduttore automatico di Google: qualche anno fa già trovare l’arabo era un problema. Oggi invece fioriscono decine di proposte, compresi alur e ilocano, konkani e tiv.
Alla fine probabilmente si verificherà con l’inglese un fenomeno che già conosce bene chi parla – o studia – il tedesco o l’arabo. Lo hochdeutsch unisce tutti i parlanti colti della bolla germanofona, che certo non si capirebbero se usassero lo schwyzerdütsch o il plattdeutsch, tipico della Germania del Nord. La dicotomia è ancora più evidente in arabo, e contribuisce alla sua fama di “lingua impossibile da imparare”. La forma classica unisce con un filo diretto la lingua del Corano e quella di Al Jazeera, ed è, si dice, un idioma che anche gli arabofoni imparano a scuola. In un certo senso è vero: a casa si continua a parlare l’arabo nelle varianti in uso nei diversi Stati. Sono idiomi così diversi tra di loro che arabofoni di Paesi diversi e lontani non si capiscono tra loro se non utilizzano come lingua franca l’arabo classico.
Alla fine una soluzione si troverà, e sarà una Babele reversibile. Se oggi i sistemi di dettatura automatica chiedono di scegliere tra inglese di Gran Bretagna o degli Usa, domani le scelte aumenteranno. La differenza sarà ancora più evidente nel vocale, che imiterà la “u” di Liverpool (dove “run”, correre, si legge con la “u” italiana) o il “non rotacismo” chic del New England, preso in giro perché «park your car» diventa «pahk yuh cah». L’inglese ufficiale invece rimarrà freddo e impeccabile, facendo piazza pulita delle mille varianti locali di una lingua parlata ufficialmente in decine di Paesi, dalla Gran Bretagna al Sudafrica, da Malta al Pakistan, da Hong Kong alle Fiji. E persino, con grande stupore di Donald Trump, dagli africani della Liberia.
A cura di angiola Codacci-pisanelli