Difendere la terra nutrire il Pianeta

Sentiamo spesso una domanda: come si può aumentare la produzione per sfamare i 700 milioni di persone denutrite e i due miliardi che si aggiungeranno a tavola entro la fine del secolo? A prima vista potrebbe sembrare la domanda centrale. Ma forse non è quella giusta perché parte dal presupposto che il trend di crescita produttiva possa accelerare. Che basti fare quello che abbiamo sempre fatto, ma farlo di più.

Secondo vari studi, questo presupposto è la causa del problema. Già nel 2019 l’Agenzia Europea dell’Ambiente prevedeva un calo fino al 50% della produzione agricola in alcune regioni d’Europa entro il 2050 a causa del cambiamento climatico. Ora uno studio del maggio scorso, firmato da Boston Consulting Group e Quantis, valuta la minaccia a livello globale: entro il 2050 un terzo della produzione agricola mondiale rischia di andare perso a causa di eventi climatici estremi, crisi geopolitiche, instabilità delle filiere. E le cronache – dai dazi di Trump all’allungarsi delle siccità – confermano i timori.

Dunque, se per tutto il corso del Novecento abbiamo misurato i progressi agricoli utilizzando un metro quantitativo, oggi è il caso di aggiungere altri parametri: qualità, lotta allo spreco (che vale un terzo della produzione agricola), tutela della fertilità del terreno, difesa del reddito dei piccoli coltivatori (che altrimenti dalla categoria dei produttori potrebbero passare a quella degli affamati).

«Cambiare tipo di agricoltura è una necessità, non un’opzione, perché il modello intensivo ad alto uso di chimica di sintesi non è più in grado di garantire l’aumento della produzione: dobbiamo riallineare gli sforzi per difendere la nostra salute e quella del suolo», spiega Maria Grazia Mammuccini, presidente di FederBio. «L’espansione delle aree desertificate, l’impoverimento del terreno, la perdita di biodiversità, la crisi climatica sono tutti segnali di un equilibrio che si va progressivamente rompendo. E il risultato si vede già oggi: in molti casi i raccolti diminuiscono a causa della somma dei danni prodotti. Per fortuna la risposta esiste ed è l’agrobiologia: le tecniche biologiche biodinamiche restituiscono vitalità al terreno, difendono la biodiversità e tornano a fare dell’agricoltura un’attività che cattura carbonio nella terra, mentre il modello agricolo intensivo aumenta le emissioni serra».

«L’impatto del cambiamento climatico in campo agricolo è ormai evidente», aggiunge Nicoletta Maffini, presidente di Assobio e direttore generale di Conapi. «Ad esempio le api sono in grande difficoltà sia per l’uso eccessivo della chimica di sintesi in agricoltura che per l’aumento della temperatura. Gli inverni miti le inducono a uscire dall’alveare troppo presto: escono per bottinare, trovano campi senza fiori e tornano senza nettare. Così sprecano energie, rischiando di esaurire le scorte che avevano accumulato per la stagione fredda. Se gli alveari sono custoditi dagli apicoltori si interviene fornendo sostanze zuccherine: un aiuto che, aggiunto ai trattamenti naturali anti Varroa forniti dagli apicoltori bio, fa la differenza. Per le altre api è dura».

Nel nuovo modello di agricoltura resiliente anche le città si ritagliano un ruolo. «Roma è la capitale con la più vasta superficie agricola d’Europa e la nostra scommessa è fare dell’agricoltura urbana, oltre che una fonte di cibo di qualità, anche uno strumento di coesione sociale e rigenerazione urbana», dice Sabrina Alfonsi, assessora all’Agricoltura del Comune di Roma. «Abbiamo avviato una food policy che prova a mettere a sistema produzione, trasformazione e distribuzione, valorizzando i mercati rionali e promuovendo un marchio locale per le produzioni agricole romane. E puntiamo sull’educazione alimentare, da inserire nelle politiche educative scolastiche e nella formazione degli adulti, per costruire una cultura del cibo consapevole e responsabile. L’obiettivo è coniugare tradizione e innovazione, qualità e inclusione sociale».

C’è poi un altro tassello della riconversione alimentare green che sta crescendo rapidamente, il mondo veg: si va dai vegetariani (niente carne) ai vegani (nessun alimento di origine animale). Secondo il Rapporto 2024 di Eurispes, assieme rappresentano il 9,5% degli italiani, una percentuale in rapido aumento. E più veloce è l’aumento dei flexitariani, le persone che scelgono una dieta prevalentemente vegetariana ma con qualche eccezione.

«Noi stiamo crescendo al ritmo del 25-30% l’anno, anche perché i prodotti vegetariani da banco, come i burger vegetali o le fantasie di carpaccio, ormai sono comparabili con quelli tradizionali», conferma Massimo Santinelli, fondatore e Ceo di Biolab, storico marchio specializzato nella produzione di alimenti a base vegetale, con una linea dedicata al bio. «E anche dal punto di vista della ristorazione il veg guadagna terreno perché basta che in un gruppo che vuole andare a cena ci sia una persona che non mangia carne per orientare la scelta verso un locale che offre opzioni vegetariane adeguate».

È una buona notizia dal punto di vista sanitario, visto che i medici consigliano, soprattutto ai non giovani, di limitare il consumo di carne. E ambientale, visto che una dieta vegetariana dà un importante contributo al taglio delle emissioni serra. Per non parlare dei risparmi idrici: una bistecca da mezzo chilo costa 7.500 litri di acqua.

Oggi il ciclo del cibo è responsabile di un terzo delle emissioni serra. Con i nuovi stili di vita e di produzione che stanno emergendo, il mondo agricolo può tornare a essere sostenibile.

A cura di Antonio Cianciullo