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Per innovare servono investimenti, e quindi credito. È questo il maggiore ostacolo che incontrano le piccole e medie imprese, cioè il tessuto connettivo dell’economia italiana, quando vogliono investire per ammodernarsi: spesso non riescono a presentarsi al mondo finanziario come sufficientemente affidabili. A perderci, così, sono entrambi: imprese e finanza.
Per cambiare approccio, una banca piemontese, ViViBanca, ha deciso di applicare alle aziende un metodo che già da tempo usa per il mondo consumer. Per riuscirci, la banca ha dovuto, a sua volta, innovare radicalmente i propri processi e sviluppare strumenti tecnologici avanzati. Questo ha consentito di semplificare e aumentare le opportunità di accesso al credito da parte delle Pmi, accompagnandole nel loro percorso di trasformazione digitale e sostenibile.
Per conoscere qualche dettaglio di questo modello, L’Espresso ha parlato con Giovanni Maione, responsabile business di ViViBanca.
Quali sono oggi i principali ambiti di innovazione per le piccole e medie imprese italiane?
«Noi vediamo due macro-ambiti principali: la digitalizzazione e il trasferimento tecnologico. C’è un’attenzione fondamentale all’efficientamento energetico: in una lista di priorità dei driver per cui le imprese stanno adottando investimenti, certamente questo lo metterei al primo punto. E la legislazione pubblica lo supporta: la Transizione 5.0 e la Sabatini Green sono due interventi agevolati che orientano molto l’impresa verso questo obiettivo».
E quando parliamo di digitalizzazione, cosa si può intendere?
«Recentemente, abbiamo visitato un’impresa che vende frutta secca. Il papà la vendeva al bancone e i conti stavano precipitando. È arrivata la nuova generazione e i due figli per prima cosa hanno detto: “Papà, noi la frutta secca la vendiamo con l’e-commerce”. L’azienda ha cambiato volto in sei mesi: non più un’impresa che vende all’ingrosso ai commercianti, ma una società che vende quella frutta secca in B2C, attraverso l’e-commerce. E si fa pagare prima della spedizione».
Quindi innovare non è più una scelta ma una necessità?
«Esatto. Per dirla in sintesi: se tu non ci credi, esci dal mercato. L’altro giorno facevamo un comparativo su un paio di alberghi di medie dimensioni. Dobbiamo immaginare un albergo con un significativo consumo di energia elettrica. Uno ha deciso di fare l’impianto fotovoltaico e l’altro no. E a quel punto non c’è più confronto: quello che non ha fatto l’impianto perde e quello che l’ha fatto vince».
Allora cosa frena le aziende nell’aggiornarsi?
«Tutto viene ostacolato dal gap nel trasferimento tecnologico».
Cosa vuol dire?
«La tecnologia nasce nei laboratori di ricerca, nelle università, negli incubatori. Quando la Pmi ha risorse, riesce a fare connessione con questi ambiti scientifici e fa trasferimento tecnologico. Quando invece è medio-piccola e ha scarsità di risorse, non riesce a connettersi con quegli ambiti scientifici. Il ruolo della banca dovrebbe essere quello di avvicinare gli ambiti scientifici e gli ambiti operativi anche attraverso il sostegno finanziario. Se c’è una capacità di investimento, dovresti dire alla piccola impresa: “Guarda, io sono in grado di farti fare delle cose perché sono in contatto con l’università o con l’incubatore e sarei anche in grado di sostenerti finanziariamente per fare questa attività”».
Ma per le banche è oneroso gestire l’affidabilità delle aziende di piccole dimensioni. La tecnologia può essere d’aiuto, dato che per il credito al consumo è stata decisiva?
«Certo. E la nostra è una banca che ha forti radici negli ambiti tecnologici. In passato eravamo focalizzati sul credito al consumo con processi full digital e un modello di servizio molto friendly. Abbiamo preso questa expertise e l’abbiamo spostata sul mondo delle Pmi. Oggi siamo in grado di fare un’attività predittiva molto importante sull’impresa: già nelle fasi di pre-anagrafica riusciamo a capire esattamente la qualità dell'impresa ed evidenziare punti di forza e debolezza. Prima di andare ad affidare l’impresa sappiamo già su quali elementi strutturali dobbiamo intervenire per migliorare il suo accesso al credito».
Può farci un esempio pratico?
«Abbiamo fatto un predittivo su un’impresa che aveva tra le poste di bilancio un finanziamento socio. Abbiamo chiesto all’imprenditore di portarla a capitale. Questo ha determinato il miglioramento di due notch del rating del fondo centrale di garanzia. Non abbiamo fatto nessun miracolo, abbiamo semplicemente detto: “C’è una struttura patrimoniale, sistematela un po’. Pagherete qualche centesimo di tasse in più per portare a capitale, però migliorate il vostro rating e quindi il vostro accesso al credito”».
I tempi di vita delle imprese sono cambiati?
«Oggi il ciclo di vita di un’impresa si è fortemente ridotto. Ci può stare che tu abbia deciso di fare una cosa in un certo modo per i prossimi sei mesi, poi accade qualcosa e se non sei reattivo esci dal mercato. Un piano industriale forse è vero per sei mesi, se l’hai fatto bene; poi lo devi rifare perché il mondo gira a gran velocità».
Quali sono le caratteristiche che rendono un’azienda pronta all’innovazione?
«L’elemento centrale è che ci siano persone abilitate a fare trasferimento tecnologico. Sia nel grande che nel piccolo. In una piccola impresa dove non c’è la persona che vuole fare trasferimento tecnologico, ti inceppi ed esci dal mercato. Il proprietario di un’azienda che fa tre o quattro milioni di fatturato e non ha quelle competenze, deve avere la lungimiranza di appoggiarsi a qualcuno con questo profilo. E si torna al discorso di prima: un sistema creditizio che riesce a fare da volano tra gli ambiti scientifici e quelli operativi».
Esiste una vocazione italiana all’innovazione?
«Molto forte. Le università stanno facendo un lavoro imponente. Penso a Torino ma anche a Napoli, dove è arrivata Google con 400 talenti che lavorano sullo sviluppo di nuove tecnologie. C’è il mondo degli incubatori e delle startup che è presente ovunque. Il tema è sempre il gap del trasferimento: ci sono posti dove le tecnologie vengono studiate e realizzate, e posti dove devono essere applicate per fare business».
C’è ancora una differenza tra Nord e Sud nell’innovazione?
«Quell’immaginario collettivo per cui era più difficile fare impresa nel Sud lo trovo sfocato. Oggi tanti imprenditori meridionali stanno facendo attività al Nord e viceversa. Quando scendi sulla singola impresa, puoi trovarne una molto efficiente sia al Sud come al Nord. La differenza la fanno le persone e gli imprenditori».
Ma la differenza delle infrastrutture è un elemento oggettivo.
«Questo è vero. In Sicilia, per esempio, i viticoltori dell’Etna hanno uno svantaggio sul costo del vetro della bottiglia perché non c’è produzione locale. Ma questo li rende più elastici: se hai un costo di 5-10 centesimi in più rispetto a un produttore del Veneto, ti devi far venire qualche idea in più per competere».
Cosa genera paura nell’innovazione?
«C’è la paura di non farcela. Quando invece cominci a sperimentare ti accorgi che ce la fai anche se non sei molto bravo. Poi cominci a fare sperimentazione e ti accorgi che è più semplice di quanto immaginavi».
Quali sono le prospettive future?
«Stiamo sviluppando un modello che chiamiamo “phygital”: utilizziamo molto le tecnologie ma non perdiamo di vista il rapporto umano. Avremo delle scrivanie evolute dove il cliente può fare banking tradizionale; ma se non riesce a fare le cose da solo, preme un tasto, si alza lo schermo e trova una persona nostra, non un avatar. Partiremo con due prototipi, probabilmente Napoli e Milano».
Colloquio con Giovanni Maione di Giampiero Moncada