

Cosa potrebbe accadere se due astronauti litigassero sulla superficie di Marte? E se un robot danneggiasse una base lunare privata? Oppure, ancora, se un’intelligenza artificiale progettata per coordinare il traffico orbitale dovesse prendere una decisione che provoca la perdita di un satellite strategico? La giustizia nello spazio sembra ancora un tema relegato ai romanzi di fantascienza, eppure è un problema molto più reale e urgente di quanto si possa immaginare. Fino a ieri, infatti, lo spazio extra-atmosferico è stato un territorio di esclusiva competenza delle agenzie governative e delle imprese con budget miliardari. Oggi, invece, è sempre più accessibile a un numero ampio di soggetti pubblici e soprattutto privati. Non solo satelliti e stazioni orbitanti, ma laboratori, piattaforme, sfruttamento di miniere e persino infrastrutture per permettere la vita di tutti i giorni oltre la nostra atmosfera. Tutto questo è già in fase di progettazione, in alcuni casi di realizzazione.
Con lo spazio che diventa il prossimo teatro per attività economiche, scientifiche e umane sempre più complesse, è necessario porsi una domanda nuova: chi prende le decisioni, chi stabilisce le regole e – soprattutto – chi fa rispettare le leggi in assenza di uno Stato? La risposta, al momento, è semplice: nessuno. O meglio, le regole ci sono, ma sono spesso generiche, vaghe e pensate per un’epoca diversa.
Lo spazio, infatti, è un territorio senza un “padrone”. Ciò per una scelta ben precisa, ovvero quella che nessuno Stato o gruppo di Stati possa reclamare diritti sul territorio lunare o su un asteroide. Tuttavia, questa idea tesa a garantire un livello comune di equità rischia oggi di creare un problema ben maggiore. In assenza di uno Stato, infatti, non può esserci una polizia orbitale o un tribunale lunare, neanche una Costituzione marziana. Eppure – questo è il paradosso – essendo un ambiente estremo, fragile e interdipendente, le attività nello spazio extra-atmosferico hanno bisogno urgentemente di regole, onde evitare di vivere anche per questo dominio delle attività umane un nuovo “Far West”, come è accaduto anni fa, ad esempio, per il cyberspazio.
La realtà è sotto gli occhi di tutti. Ogni giorno centinaia di satelliti privati sorvolano il nostro pianeta, nuovi razzi vengono lanciati da piattaforme pubbliche e commerciali, si progettano avamposti permanenti su altri corpi celesti, si stipulano contratti tra aziende per estrarre risorse minerarie da asteroidi o dalla superficie lunare. La space economy non è più uno slogan da convegno, ma è un settore vivo, in crescita esponenziale, con un valore stimato in Italia nel 2024 di circa 3 miliardi di euro.
Va evidenziato inoltre che, laddove un errore può generare un effetto domino devastante e dove le responsabilità – tecniche, umane, finanziarie – sono spesso condivise tra più soggetti, pubblici e privati, terrestri e orbitanti, alcuni Paesi stanno provando a forzare questo vuoto normativo scrivendo regole proprie, soprattutto in materia di estrazione delle risorse. C’è chi riconosce il diritto delle imprese di sfruttare e persino possedere materiali estratti da corpi celesti. C’è chi punta su accordi bilaterali per stabilire zone di influenza, protocolli di condotta, regole tecniche. La verità, però, è che nessuna di queste soluzioni può davvero bastare, in quanto serve una nuova grammatica del diritto, capace di essere flessibile ed efficace, essenziale e solida. Ci stiamo spingendo, infatti, verso ambienti in cui il modello statale semplicemente non funziona e non perché sbagliato in sé, ma perché non può essere applicato in contesti dove non esiste una sovranità, dove non ci sono confini, dove gli attori coinvolti sono decine, ognuno con regole, obiettivi, disponibilità e valori differenti. Lo spazio extra-atmosferico non è un territorio da conquistare, ma uno spazio da condividere. E dando per scontato che la condivisione richieda necessariamente delle regole, non possiamo pensare di risolvere problemi interplanetari con logiche amministrative atte a gestire le liti condominiali.
La vera sfida odierna, allora, non è solo quella di creare nuove regole, ma di costruire un nuovo modo di pensarle. Serve un diritto capace di immaginare e “anticipare” i problemi prima che sfocino nel contenzioso. Serve un modello di giustizia che non si basi solo su sanzioni e risarcimenti, ma su cooperazione, trasparenza, condivisione delle responsabilità. Serve, soprattutto, la capacità di immaginare un futuro in cui lo spazio non sia solo una nuova frontiera economica, ma anche un laboratorio politico, giuridico ed etico.
Perché è nello spazio che si progetta il futuro dell’umanità. E il modo in cui sceglieremo di convivere lassù – tra habitat, stazioni e rotte orbitali – finirà per definire anche come decideremo di abitare il pianeta qui giù. La giustizia interplanetaria non potrà essere la brutta copia delle leggi terrestri. Non dovrà esserlo. Dovrà essere qualcosa di diverso, che pochissimi oggi riescono a vedere, ma che abbiamo comunque il dovere di cominciare a scrivere. Insieme. Possiamo fare dello spazio extra-atmosferico il luogo in cui imparare a vivere meglio. E questa, sì, sarebbe una conquista davvero spaziale.
A cura di Stefano Mele