

Chi sabota il risparmio in bolletta?
Ormai è sotto gli occhi di tutti l’aumento indiscriminato del costo dell’elettricità (ma anche del gas).
Soprattutto se si mette l’Italia a confronto con gli altri Paesi europei si scopre che da noi il costo medio dell’elettricità è pari a 108,52 euro per megawattora, in Francia è di 58,02 euro per megawattora, in Germania è stato pari a 78,51 euro e in Austria di 81,54 euro per megawattora.
La Spagna si è attestata a 63,04 euro, mentre l’area scandinava ha visto prezzi addirittura di 38,06 euro.
In particolare la Germania ha condizioni di approvvigionamento energetico simili alle nostre: non ha nucleare, e brucia carbone più o meno nella stessa proporzione con cui noi traiamo energia dall’idroelettrico.
Dunque, di chi è la colpa se in Italia la bolletta resta stratosferica? Serve ancora qualche giorno per rispondere a questa domanda, poi Arera, l’Autorità di Regolazione per l’Energia Reti e Ambiente, fornirà una risposta, si spera esaustiva.
Già a fine marzo l’ente avrebbe dovuto consegnare al Parlamento gli esiti parziali di un’indagine avviata per verificare le storture del prezzo dell’energia elettrica negli anni 2023 e 2024. A seguito di numerose sollecitazioni, l’indagine è stata avviata a ottobre e serve ad analizzare il funzionamento dei mercati, laddove si forma il prezzo dell’energia al fine di comprendere se vi siano comportamenti speculativi degli operatori che abbiano potuto incidere negativamente sulla formazione del pun, il prezzo unico nazionale. Arera si è presa qualche mese per approfondire l’indagine.
Nel frattempo, possiamo almeno constatare che la liberalizzazione del mercato energetico non ha sortito alcun effetto.
Una delle ragioni è che muoversi nel mercato libero e scegliere l’offerta più conveniente è complicato.
Questo perché, oltre al prezzo dell’energia, ci sono altre voci da valutare, come il trasporto, gli oneri di sistema e una miriade di altre voci che non si ripetono l’una uguale all’altra fra le 700 aziende di servizi: quindi le offerte non sono confrontabili.
Lo dimostrano, ancora, le statistiche di Arera secondo cui è infinitesimale la percentuale di famiglie che cambia fornitore e sceglie le tariffe più convenienti: ad esempio, a dicembre 36 mila famiglie hanno cambiato gestore e scelto una tariffa fra le più convenienti, gli altri 241 mila consumatori sono, per così dire, finiti dalla padella alla brace, fra le braccia di un’azienda per nulla competitiva. E questa statistica è sovrapponibile a tutti i mesi precedenti.
Che vi sia qualcosa di anomalo nella formazione del prezzo è intuibile andando a scorporare le voci che compongono il prezzo finale.
Oltre al costo della materia prima, il prezzo finale dipende dai costi per trasporto e gestione contatore, dagli oneri di sistema e dalle imposte.
La prima componente su cui riflettere è la “materia energia”, composta dal Pun, ovvero il prezzo dell’energia all’ingrosso, più lo spread (cioè il margine di guadagno applicato dal fornitore), più i costi di commercializzazione e vendita (anche questi fissati dal gestore) e gli oneri di sbilanciamento determinati da Terna e Arera.
Dunque, un fornitore può guadagnare di più giocando sulle componenti di spread, commercializzazione e vendita.
Studiando l’evoluzione dei prezzi di tali componenti si vede che il Pun dal 2022 è rimasto stabile, lo spread si è tenuto mediamente attorno allo 0,04 euro per kwh, mentre i costi di commercializzazione e vendita – dal 2022 al 2025 – sono cresciuti del 66 per cento, molto più dell’inflazione, che è aumentata di circa il 20 per cento.
L’effetto della liberalizzazione avrebbe dovuto abbattere queste due voci, ma di fatto è avvenuto l’esatto opposto.
E non è l’unica voce della bolletta a essere lievitata. Passiamo agli “Oneri di sistema” e “Oneri fiscali”. Dal 2021 il governo Draghi ha azzerato gli oneri di sistema, reintrodotti ad aprile del 2023 dal governo Meloni. Inoltre, a partire da gennaio 2024 è stata annullata la riduzione dell’Iva sul gas naturale (da cui dipende una parte consistente del costo della bolletta), che adesso è pari al 10 per cento per gli usi civili, mentre prima era al 5. Sempre opera del governo Meloni.
E non è tutto. In un’interrogazione parlamentare, il deputato Luigi Marattin, parlando dell’esigenza di abbassare il costo delle bollette, ha spiegato che «il governo, con la Legge di Bilancio, ha riassegnato senza passare da gara la concessione delle reti per vent’anni ai concessionari (Enel, ma non solo) a fronte di una compensazione economica che lo Stato incasserà.
Peccato che questa somma finisce in bolletta, cioè la pagano le famiglie, maggiorata del 5,3 per cento perché vengono considerati “capitale investito”. Quindi Enel e gli altri concessionari pagano una somma allo Stato e noi tutti consumatori paghiamo quella stessa cifra (maggiorata) ai concessionari.
Una mossa fatta per alzare le bollette degli italiani». Alle osservazioni di Marattin il ministro dell’ambiente Gilberto Pichetto Fratin non ha fornito risposta specifica.
Va però detto che alcuni giorni dopo l’Antitrust ha richiamato il Mase proprio sulla proroga delle concessioni perché è incoerente con la concorrenza, chiedendo di limitare quell’estensione ventennale allo stretto indispensabile dal momento che rischia di portare a un cortocircuito con i finanziamenti pubblici per gli investimenti (anche da Pnrr) che i distributori ricevono.
Le perle del governo sul fronte del rincaro delle bollette sono sufficienti per farne una splendida collana.
In un altro question time, la premier Meloni ha invitato le opposizioni a fare una battaglia comune a favore del disaccoppiamento del prezzo del gas da quello delle rinnovabili per favorire una riduzione del costo dell’energia. Peccato che gli strumenti per disaccoppiare il prezzo dell’energia prodotta con le rinnovabili, rispetto a quello del gas, già esistono, ma proprio il governo e i suoi ministri li stanno rallentando. Il primo sono le aste competitive, alle quali le rinnovabili potrebbero partecipare offrendo al mercato un prezzo più basso del Pun (fortemente legato al gas): ma il decreto Fer X per concedere al solare e all’eolico di parteciparvi non vede la luce da tre anni. A febbraio ne è uscita una versione transitoria che, anziché pianificare le aste competitive fino al 2028, come avrebbe dovuto fare il Fer X, le organizza solo fino a fine 2025. Siamo a maggio e non ci sono le aste perché il governo, dopo l’annuncio del decreto, non ha pubblicato le regole attuative. Solo negli ultimi giorni il direttore generale di Mercati e Infrastrutture Energetiche, Alessandro Noce, ha promesso che sarà indetta soltanto una gara entro la fine dell’anno. Speriamo. Si potrebbe quindi affermare che Meloni, la battaglia per il disaccoppiamento, dovrebbe farla con il suo ministero dell’Ambiente. Lo stesso che, parallelamente, nel nuovo decreto Fer2 ha escluso l’eolico offshore da ogni procedura di incentivazione, nonostante rappresenti il 90 per cento della capacità da mettere nella relativa asta. Probabilmente perché il Mase ritiene più giusto investire sul nucleare, su cui, però, non esiste alcuna certezza rispetto al risparmio in bolletta e alla sostenibilità ambientale.
E mentre fotovoltaico ed eolico affrontano la burocrazia ministeriale, l’idroelettrico paga dazio alle Regioni.
L’energia dell’acqua è la maggior fonte di energia pulita in Italia: vale il 40 per cento della produzione rinnovabile.
«L’acqua è un bene pubblico utilizzato per produrre energia su impianti che richiedono importanti investimenti.
Il modello di concessione, soprattutto se si procederà a una estensione temporale degli affidamenti, richiederà una regolamentazione in grado di garantire gli investimenti con un’equa remunerazione, ma anche corretto valore della produzione per sostenere la competitività del sistema produttivo e delle famiglie», spiega Massimo Beccarello docente di Economia all’Università Bicocca e direttore del Cesisp. Che spiega come le Regioni incassino parecchio dalla gestione degli impianti idrici: «Nel 2023 il valore dell’energia idroelettrica prodotta era stimabile in circa 5,4 miliardi di ricavi per i concessionari, gli introiti per i canoni regionali in circa 760 milioni di euro.
In Lombardia, ad esempio, il canone è di 35 euro per MW più un 2,5 per cento sull’energia prodotta, per un incasso stimabile in circa 180 milioni di euro.
Ma non è dato sapere con certezza come vengono investiti quei soldi che, alla fine, provengono sempre dalle bollette (ovvero dalle tasche) degli italiani».
L’economista aggiunge: «La Commissione Europea, nel nuovo Action Plan for Affordable Energy, ha proposto un nuovo modello di regolamentazione che si chiama “tripartite contract” per garantire gli investimenti nel lungo periodo con il coinvolgimento dei gestori, degli enti pubblici e dei consumatori.
Poiché il settore dell’idroelettrico richiederà nei prossimi anni importanti investimenti di manutenzione straordinaria, il “caso idroelettrico” italiano potrebbe trovare soluzione nel nuovo modello dell’Ue, dando maggiori certezze ai gestori e garantendo la competitività, ad esempio, dei settori produttivi più esposti al rischio delocalizzazione».
A cura di Giulia Trentin