Biofuel, carburanti per il cambiamento

Abbiamo imparato a memoria l’alfabeto della transizione: E come elettrico, Z come zero emissioni. Ma in mezzo? Una fitta nebbia di silenzi. I biocarburanti, ad esempio, sembrano vivere in un limbo: non abbastanza “futuro” per i visionari, troppo innovativi per gli amanti del diesel. Eppure, sono qui. Esistono. E funzionano. E a proposito di alfabeto della transizione, nelle pagine seguenti proviamo a fornirvene uno completo, e si spera esaustivo, anche noi. Con tutte le lettere mancanti: B come biocarburanti, S come sistemi ibridi, F come filiere locali, R come realtà. Perché tra il dire “sostenibilità” e il farla esiste un’intera grammatica da ricostruire. E come in ogni lingua viva, sono le eccezioni a raccontare meglio la regola.

Sgombriamo subito il campo da un equivoco. I biocarburanti di cui parliamo oggi non hanno nulla a che vedere con l’olio di palma bruciato in qualche vecchia centrale o con le monoculture di mais coltivate al posto delle foreste. Quello è il passato. O, peggio, il greenwashing di ieri. I biocarburanti avanzati sono un’altra cosa. Parliamo di carburanti prodotti a partire da scarti organici, oli esausti, residui agricoli, grassi animali, fanghi di depurazione. Materie seconde, non materie prime. Rifiuti, non risorse. Almeno fino a quando non entrano in circolo. Perché è proprio lì che sta la differenza: non si tratta di chiudere un ciclo, ma di rimettere in moto ciò che era destinato a perdersi.

Non sono in concorrenza con l’elettrico. Sono complementari. L’elettrificazione è, e sarà, un pilastro della transizione. Ma non è l’unico. I biocarburanti hanno un vantaggio immediato: possono essere utilizzati qui, ora, sulle infrastrutture esistenti, senza attendere reti nuove o una rivoluzione del parco veicoli.

In cima alla lista c’è l’HVO (Hydrotreated Vegetable Oil), un carburante che si presenta come il gasolio, si comporta come il gasolio, ma non è gasolio. Può essere utilizzato puro (HVO100) o in miscela, è già compatibile con milioni di veicoli esistenti e, soprattutto, riduce le emissioni di CO₂ fino al 90% rispetto al gasolio convenzionale. Accanto all’HVO troviamo il bioetanolo, ottenuto dalla fermentazione degli zuccheri contenuti in biomasse non alimentari, e il biodiesel avanzato, che sfrutta gli scarti dell’industria agroalimentare.

Soluzioni diverse, stesso principio: usare ciò che già esiste, evitare di estrarre ancora. E se il loro nome non fa sognare come “auto a idrogeno” o “batterie al grafene”, il loro potenziale non ha nulla da invidiare a nessuno. La differenza è che i biocarburanti non chiedono tempo. Chiedono solo di essere usati. Nel 2024 hanno coperto circa il 7% dei consumi energetici nei trasporti in Europa. Una cifra apparentemente marginale, ma enorme se rapportata a ciò che è già disponibile, compatibile e funzionante.

In Italia le cose si muovono, lentamente, ma si muovono. Secondo l’ultimo rapporto del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, nel corso dell’anno sono state immesse in consumo circa 1,6 milioni di tonnellate di biocarburanti, con una crescita del 5,2% rispetto al 2023. La fetta più ampia riguarda ancora i trasporti stradali, dove il biodiesel, soprattutto quello avanzato, rappresenta una quota consistente delle miscele distribuite.

Ma è nei comparti meno visibili, e meno facilmente elettrificabili, che si registra il salto più interessante. Nel settore marittimo, l’impiego di biofuel ha visto un’accelerazione spinta dalla normativa IMO (International Maritime Organization) e dai test avviati da compagnie come Grimaldi Lines e GNV, che hanno iniziato ad alimentare traghetti e cargo con blend di biodiesel e HVO, riducendo le emissioni fino al 70% su alcune tratte nel Mediterraneo. Anche nel comparto aeronautico, seppur in fase ancora sperimentale, si sono registrati segnali concreti. ITA Airways ha effettuato negli ultimi anni diversi voli commerciali alimentati parzialmente con SAF (Sustainable Aviation Fuel). Un passaggio simbolico, che segna l’ingresso dell’Italia nel percorso europeo verso il mandato del 2% di SAF entro il 2025, previsto dalla normativa ReFuelEU Aviation, che stabilisce un incremento progressivo fino al 70% entro il 2050.

Non meno rilevante è il ruolo del settore agricolo, che si sta configurando come fornitore strategico di materia prima. Le filiere del mais, del sorgo, degli scarti vitivinicoli, soprattutto nel Nord Italia, stanno alimentando impianti di digestione anaerobica e bioraffinazione, con esempi virtuosi come il polo di Crescentino (VC), oggi uno dei maggiori siti europei per la produzione di etanolo di seconda generazione.

In termini di impatto complessivo, ENEA ha stimato che nel 2024 l’uso di biocarburanti in Italia ha consentito una riduzione netta di 4,7 milioni di tonnellate di CO₂ equivalente. Tradotto: l’equivalente di quanto assorbito ogni anno da una foresta grande quanto la provincia di Cuneo.

La domanda vera, dunque, non è se i biocarburanti funzionano. Non è nemmeno se siano sostenibili, scalabili o compatibili. La domanda vera è: perché continuiamo a trattarli come un’eccezione?

Negli ultimi mesi si sono moltiplicate iniziative significative. Progetti, test, impieghi sperimentali. Non vanno ridimensionate, ma nemmeno mitizzate. Perché se queste esperienze restano isole felici e non diventano infrastruttura sistemica, non stiamo costruendo nulla. Stiamo comunicando. E la transizione non ha bisogno di case history, ha bisogno di normalità: di processi industriali, di norme condivise, di infrastrutture che permettano a ciò che è già pronto di diventare standard.

A cura di Elisa Bartoletti